giovedì 11 febbraio 2021

Coreografie al mercato coperto: la danza delle ragnatele

Sto facendo la spesa al mercato coperto di via Boccaccio.E capita che guardo in sù.


di Martina Luciani


Sto facendo la spesa al mercato coperto di via Boccaccio.
Sto in fila, distanziata, immersa nei miei pensieri e nella mascherina, ho già intravvisto sul bancone le rosse Moro dell’Etna e pregusto la dolcezza della spremuta che farò per le mie affaticate studentesse.
Una vicina di casa mi saluta, Marco mi chiede come va e intanto guardo le sue splendide primule e mi dico che piove troppo per tornare alla macchina anche con un plateau di fiori che poi non potrei nell’immediato rinvasare. Prossima volta.

In quello, una goccia si spiaccica sul mio cuoio cappelluto, e intraprende il classico odioso meccanismo di infiltrazione dei capelli sul cocuzzolo della mia testa: una piccolissima invasione che però è sempre così fastidiosa quando non te la aspetti.
Faccio un istintivo spostamento laterale di posizione e tiro su gli occhi.
Così tra il lontano soffitto della volta dove rumoreggia la pioggia, la serie di laterali controsoffittature di materiale trasparente incrostato di sporcizia e frammenti caduti dall’alto, i teli ombreggianti intrecciati in ogni direzione, si appalesa una armoniosa danza di enormi e spesse ragnatele, suscitata dall’aria soffiata dai tuboni aerei sospesi.
Quasi un elemento naturalistico, come le ragnatele tra i rami di un cespuglio in un raggio di sole del mattino e in un lieve soffio di vento: che è una bellezza.
Ma qui dentro di sicuro no. E cercando di cogliere per questa coreografia un’emozione che non sia gotica, o se preferite dark, o se preferite schifata, osservando ipnotizzata la danza grigioscura dei veli sopra di me, ostinandomi a non pensare a cosa venga disperso nell’aria che sto respirando, colgo anche i riccioli di vernice con cui la ruggine sta pazientemente ma inesorabilmente decorando i lati delle strutture metalliche nell’angolo del soffitto dove la pioggia penetra, completando così l' estetica delle sovrastanti rifiniture di strati di polvere atavica.
Già che ci sono ed ho tempo, seguo anche il percorso probabile della goccia che ha risvegliato la mia attenzione verso l’empireo del mercato: dalla volta in discesa al mensolone trasparente su cui si archivia diligentemente la sporcizia, con una fase di raccoglimento ( fisico, non spirituale) in una pozzangherina dove si solubilizzano i vari elementi costituenti il deposito che mai mano umana ha inteso spazzar via, per poi - in una sorta di distillazione della quintessenza dell’incuria e della negligenza ( risultato mai studiato dagli alchimisti antichi) - infiltrarsi in una commessura e piombare giù in rigorosa osservanza alla legge della gravità del pianeta.

Ecco (pronunciato con due C, e non con una sola, come ho sentito una decina di volte nell’ultimo consiglio comunale, caspita o parlate in dialetto o parlate in italiano e usate le doppie) voglio dire questo.
Tra questa indecorosa situazione igienico – estetica- organizzativa del nostro mercato (che io amo con tutta me stessa, sia chiaro) e l’improbabile esercitazione metafisica dell’ultimo progetto faraonico di ristrutturazione, è possibile o no una fase intermedia (che in media stat virtus) di normale manutenzione, a fini igienici e conservativi (oltre che di basilare decenza per le relazioni che nella struttura in questione si svolgono ogni santo giorno)?
PULIRE periodicamente, effettuare MANUTENZIONI ORDINARIE, tenere da conto (traduzione diretta dal dialetto goriziano) è roba da diligenza media, non servono archistar, urbanisti new age, docenti importati dalle principali università americane di sociologia ed economia, ingegneri costruttori di ponti sopra i mari, statisti di fama internazionale o amministratori in pieno trip (uso questo termine in sostituzione della parola visione, che mi hanno fatto notare essere ormai abusata).
Serve l’idea – arcaica, banale, internazionale -  che il "tegnir de conto" si fa a casa propria ma lo si fa anche nei luoghi  "casa comune", affidata alle competenze della pubblica amministrazione che ne deve aver cura in nome nostro, dei cittadini; che il "tegnir de conto" rende storica e bella e confortante la vecchiaia delle cose e preserva i manufatti da quella condizione estrema della senescenza  che è soltanto brutta, triste e irrecuperabile.
Perché, cavolo, deve essere così faticoso ottenere in questa città il minimo sindacale in ogni cosa?