giovedì 26 marzo 2020

Accordo COOP - CRI di Gorizia per la consegna spesa a domicilio nel comune di Gorizia e nel mandamento di Monfalcone.


Emergenza coronavirus.

Mettendosi in contatto con la Centrale operativa della Croce Rossa - Comitato di Gorizia sarà possibile ottenere la consegna della spesa a casa, effettuata nei
supermercati Coop di via Lungo Isonzo Argentina e via Boccaccio.  Analoga iniziativa a Monfalcone.


di Martina Luciani


E' stato concluso oggi l'accordo tra Coop Alleanza 3.0 e Croce Rossa di Gorizia per offrire ai cittadini la consegna della spesa a domicilio, effettuata nei due supermercati Coop cittadini. Una opportunità significativa, che riguarda tutti e non solo i soci Coop, per limitare gli spostamenti dalla propria abitazione, semplificare la vita a molti ed evitare la frequentazione dei supermercati. 
L'iniziativa copre il territorio del Comune di Gorizia ed è completamente gratuita.

Coop Alleanza 3.0 garantisce alla C.R.I. di Gorizia un rimborso spese pari a 6 euro per ogni spesa effettuata presso i propri punti vendita.

Le persone che necessitano di questo servizio dovranno mettersi in contatto con la sala operativa della CRI telefonando al numero 389 1242025 o scrivere all'indirizzo di posta elettronica stampa.crigorizia@gmail.com.

Il pagamento della spesa ordinata verrà fatto direttamente ai volontari che consegneranno la spesa.


Analogo accordo è stato concluso per fornire il servizio gratuito di consegna a domicilio a partire dai supermercati Coop  Monfalcone Centro, Monfalcone Marcelliana e di Ronchi dei Legionari, esteso ai Comuni di Staranzano, Fogliano Redipuglia, Doberdò del Lago, San Pier d'Isonzo, San Canzian d'Isonzo, Turriacco (ovviamente Monfalcone e Ronchi dei Legionari inclusi).
Il numero cui fare riferimento è 334 9454884, l'indirizzo di posta elettronica è monfalcone@cri.it.



Aperte le adesioni al manifesto NON SIAMO IN GUERRA, SALVIAMO LA DEMOCRAZIA.


A fronte di progressivi adattamenti e contrazioni del sistema democratico e delle garanzie fondamentali nel nome delle esigenze della gestione dell'emergenza da parte dei pubblici poteri, un gruppo di cittadini ha ritenuto opportuno descrivere la propria grande preoccupazione, renderla pubblica e inviare questa testimonianza ai rappresentanti del Governo sul territorio, nel nostro caso al Prefetto di Gorizia. Chi si sentisse in sintonia con questa iniziativa, trova al termine del testo un indirizzo di posta elettronica cui mandare la propria adesione.  



Scriviamo questo manifesto in qualità di cittadine e cittadini, nella consapevolezza che l'Italia sta attraversando un momento difficile, probabilmente il più complesso, dalla fine della seconda guerra mondiale.

Questo Paese ha conosciuto barbarie da cui si è sempre riuscito a risollevare grazie allo spirito di solidarietà, di fratellanza, di uguaglianza,principi cardini nella nostra Carta Costituzionale, che non devono mai essere offuscati, neanche in tempi duri come quelli che tutte e tutti noi stiamo vivendo dal mese di febbraio.

Da quando il coronavirus ha iniziato ad infettare anche l'Italia è stato deciso che dobbiamo comportarci come se fossimo in guerra. Affermazione tanto grave quanto discutibile perché un conto è fare la guerra al virus, e questa la si fa con la ricerca scientifica e la metodologia sanitaria, un conto è far piombare una nazione intera in un clima tipico della guerra. Le conseguenze sono pessime per la democrazia che è letteralmente sotto attacco.

Si è verificata la concentrazione di straordinari poteri nelle mani di strumenti tecnici e governativi che hanno totalmente bypassato la democrazia parlamentare che è quella su cui si fonda la nostra Repubblica.

Si è determinato nel Paese uno spirito di delazione che non si conosceva dai tempi del fascismo. Si sta registrando un controllo sociale, che passa dalle ronde, all'impiego dell'esercito, all'utilizzo di tecnologie,come droni, cellule telefoniche, per tracciare i movimenti delle persone.

Si stanno scaricando sui cittadini le responsabilità politiche di falle e cattive gestioni sanitarie, i diritti dei lavoratori sono passati totalmente in secondo piano, ampliando la platea dei lavori cosiddetti indispensabili e mettendo a rischio la salute di chi lavora.

Si sta verificando una concorrenza tra Stato e Regioni con provvedimenti contraddittori che generano confusione senza precedenti.

Non siamo una dittatura e vogliamo preservare la democrazia nel nostro paese.

L'articolo 2 della Costituzione afferma che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

Siamo tutti consapevoli dei nostri doveri di solidarietà sociale, così come siamo consapevoli che si sta realizzando uno sbilanciamento preoccupante di restrizioni di libertà e democrazia inaccettabili. Non siamo in guerra, ed è nostro dovere segnalare che la democrazia costituzionale in Italia sta correndo dei rischi che non possono essere giustificati dallo stato d'emergenza.

La democrazia deve rendere le scelte più condivise e dunque più efficaci per tutti.



Marco Barone, avvocato, blogger

Federica Bettari, customer care presso clinica privata

Luigi Bon,segreteria provinciale Gorizia del PRC/ Sinistra Europea

Luciano Capaldo, insegnante

Mattia Cardinali, Educatore professionale e musico terapeuta

Claudia Cernigoi, storica

Sasha Colautti  Esecutivo Provinciale USB - Lavoro Privato Trieste

Michele Crudo, insegnante

Anna Di Gianantonio, ricercatrice storica

Maurizia Di Stefano, insegnante

Gabriele Donato, insegnante

Anna Fressola, ricercatrice

Luigi Filippini, impiegato di banca

Pier Paolo Filippini, restauratore ligneo e teatrante

Maurizio Guerri, docente e ricercatore

Martina Luciani, blogger

Marco Nicolai, avvocato

Maria Clara Pascolini, insegnante
Andrea Pegoretti, programmatore informatico

Stefania Russo, disoccupata

Greta Storni, insegnante

Carlo Tomei, Coordinamento Provinciale USB lavoro privato Trieste

Iacopo Venier, giornalista

Davide Zotti, insegnante

Clausola di invarianza. Colpisce anche settori importanti della legislazione dell'emergenza virus. Un parere del CSM.

Disporre senza averne i mezzi. E' una poco visibile valvola malfunzionante tra l'essere e il dover essere di questo Paese, tra le norme e la realtà, tra i contenuti delle leggi e le effettive capacità dei poteri pubblici cui è affidata l'esecuzione delle norme. La nuova detenzione domiciliare, ad esempio, quale strumento per contenere i contagi nelle carceri sovraffollate.Cosa dice il Consiglio Superiore della Magistratura:bella idea, ma come la mettiamo in pratica se non ci sono soldi?


di Martina Luciani

La clausola di invarianza è una comunissima soluzione con cui il legislatore elabora nuove norme, le confina in uno spazio recintato con un accesso apparentemente utilizzabile (e sennò perchè si fa la norma?) poi nei fatti blindato da poche decisive parole:  "dall'attuazione del presente articolo non derivino nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica".

E' una cosa che sta ben nascosta, la trovano solo gli addetti ai lavori o le persone per vari motivi interessate ad una lettura analitica delle disposizioni di legge.

Primo esempio, per dimostrare che l'emergenza non c'entra: nel 2019 è stata varata una bella legge per introdurre nelle scuole italiane un più efficace studio della Costituzione italiana. Copio dalla legge 20 agosto 2019, n. 92: "L'educazione civica sviluppa nelle istituzioni scolastiche la conoscenza della Costituzione italiana e delle istituzioni
dell'Unione europea per sostanziare, in particolare, la condivisione e la promozione dei principi di legalita', cittadinanza attiva e digitale, sostenibilita' ambientale e diritto alla salute e al benessere della persona."E quindi: a decorrere dal 1° settembre del primo anno scolastico successivo all'entrata in vigore della presente legge, nel primo e nel secondo ciclo di istruzione e' istituito l'insegnamento trasversale dell'educazione civica, che sviluppa la conoscenza e la comprensione delle strutture e dei profili sociali, economici, giuridici, civici e ambientali della societa'. Iniziative di sensibilizzazione alla cittadinanza responsabile sono avviate dalla scuola dell'infanzia.
Però...eh c'è sempre un però.
1_ Prima scoperta nel testo di legge: Dall'attuazione del presente articolo non devono derivare incrementi o modifiche dell'organico del personale scolastico, ne' ore d'insegnamento eccedenti rispetto all'orario obbligatorio previsto dagli ordinamenti vigenti. Per lo svolgimento dei compiti di coordinamento di cui al comma 5 non sono dovuti compensi, indennita',rimborsi di spese o altri emolumenti comunque denominati, salvo che la contrattazione d'istituto stabilisca diversamente con oneri a carico del fondo per il miglioramento dell'offerta formativa.
2_ Se non fosse chiaro che bisogna arrangiarsi: Le amministrazioni interessate provvedono all'attuazione della presente legge nell'ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
Le conseguenze di questa clausola di invarianza sono facilmente intuibili.

Lo stesso meccanismo si replica a tutti i livelli, anche in emergenza sanitaria e in ambiti dove l'approssimazione degli effetti normativi dovrebbe essere esclusa.Per coerenza con la cosiddetta ratio del legislatore e per decenza.

E' stato appena reso noto il parere del Consiglio superiore della Magistratura sul Disegno di legge n.1766 di conversione del Decreto legge 17 marzo 2020 n.1.  Con le nuove norme si introduce una diversa e derogatoria disciplina diretta ad ampliare i casi di detenzione domiciliare per ridurre il sovraffollamento negli istituti penitenziari e intervenire quindi sul piano della riduzione del rischio di contagio tra detenuti, operatori e personale di polizia penitenziaria.
Bene, sappiamo dalla cronaca che nelle carceri italiane la situazione è esplosiva, opportuno dunque intervenire.
Ma il CSM, premessi una serie di dubbi interpretativi che se volete potete leggete qui, avvisa innanzitutto che "una parte numericamente non esigua della popolazione detenuta" non potrà accedere alle nuove misure" perchè non dispone di un domicilio.In aggiunta, e forse soprattutto, traballa il principale presupposto per rendere operativa la misura, peraltro ritenuta dal legislatore indifferibile per ridurre il sovraffollamento delle carceri e le le relative gravi implicazioni: gli strumenti di controllo elettronici per la detenzione domiciliare sono insufficienti. E tali resteranno, vista la clausola di invarianza ( ...dall'attuazione del presente articolo non derivino nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica...).
Conclude, sul punto, il CSM: "è prevedibile che la dotazione degli strumenti elettronici di controllo non potrà, nell'immediato, essere incrementata, il che rende la misura della detenzione domiciliare in deroga del tutto inadeguata a far fronte alle esigenze di contagio nelle carceri sovraffollate". Se non si fosse capito: ...un intervento legislativo  la cui incisività " risulterà fortemente depotenziata dalla indisponibilità degli strumenti di controllo elettronici, la cui carenza, non da oggi, costituisce una delle maggiori criticità del nostro sistema".
Insomma ( è la mia personale percezione) l'ennesimo coup de theatre, dentro e fuori l'emergenza. Oppure, in altre parole, e più finemente: tra il dover essere e l'essere c'è di mezzo il mare.

L'immagine è tratta dal documento disponibile su: http://www.magistraturademocratica.it/mdem/qg/doc/Presentazione_Beti_tribunale_Firenze.pdf







venerdì 20 marzo 2020

Covid 19 e Costituzione. Perché l’emergenza non contagi la Costituzione


Diritto e diritti ai tempi della pandemia. Il punto di vista del filosofo del diritto


Mauro Barberis
Pochi se ne sono accorti ma, come se non bastassero l’emergenza sanitaria ed economica, siamo nell’emergenza costituzionale più grave dal 1948, l’anno della Costituzione repubblicana. Né gli anni di piombo, né l’Isis, né le varie calamità naturali che hanno punteggiato la nostra storia in questi settant’anni, avevano mai portato a sospendere i nostri diritti costituzionali com’è avvenuto, invece, per il Coronavirus.
Pensateci. È sospeso il diritto di circolazione, con l’estero e all’interno, fra nord e sud e con le isole: per non parlare degli spostamenti in città, secondo l’ultima versione del modulo di autocertificazione. È sospeso il diritto di riunione: tranne online, naturalmente. Sono sospesi i diritti politici, con le elezioni regionali spostate a data da stabilirsi. È sospesa, in gran parte, anche l’attività del Parlamento. È sospeso persino l’esercizio del culto, funerali compresi: una cosa che non si vedeva dai tempi di Antigone.
Albert Camus, l’autore de La peste (1941), lo chiamerebbe Stato d’assedio (1948), alla francese. Eppure, a scanso d’equivoci, questi provvedimenti sono costituzionalmente giustificati: beninteso, a meno di farci contagiare dalle paranoie complottiste di quanti, sul web, ritengono l’epidemia inventata dai soliti poteri forti per non si sa quali bieche finalità. Più seri, semmai, sono gli allarmi dei costituzionalisti. Per dire solo una, il famoso DPCM (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri), richiamato dai cartelli affissi sulle vetrine di ogni negozio chiuso, andava preso per decreto legge, anche per assicurarne il controllo da parte del Presidente della Repubblica e del Parlamento.
Ma l’emergenza costituzionale, in realtà, sta altrove. Dopo le resistenze dei primi giorni, infatti, comincia a serpeggiare l’idea che i problemi gobali, come la pandemia, siano troppo complessi per essere affrontati dalle nostre litigiose democrazie parlamentari. Meglio semi-dittature come Singapore o la Cina, che possono mettere in quarantena intere regioni anche perché, lì, la libertà di circolazione non c’è e la sorveglianza è capillare.Niente di paragonabile, comunque, con il controllo sui cellulari degli abitanti in Lombardia, da cui il 40% degli utenti non risulta chiuso in casa come invece dovrebbe. Per non parlare dei tamponi di massa progettati da alcune regioni del centro, che faranno impennare ulteriormente le cifre del contagio
Ora, tutti noi speriamo ardentemente che tutto tornerà come prima: ma niente lo sarà, invece. Le emergenze, specie da noi, tendono a diventare permanenti, e neppure questa farà eccezione. Molte delle soluzioni sperimentate in questi giorni cambieranno, in bene o in male, le nostre vite. Il lavoro a casa, le ordinazioni online, la sorveglianza, resteranno più che una tentazione: se lo s’è fatto per il virus, perché non farlo sempre? Così, quando l’emergenza sanitaria ed economica sarà passata, ci sarà rischio di una terza emergenza: che ci tocchi pure di difendere la nostra Costituzione.

L'analisi del prof. Mauro Barberis, docente di filosofia del diritto all'Università di Trieste è stata pubblicata, ieri, sul quotidiano Il Secolo XIX.

martedì 17 marzo 2020

Concorsi letterari. Sapete che faccio, il mio racconto "selezionato" lo pubblico qua.

Si intitola La Cappellaia il racconto inedito che ho inviato ad un molto pubblicizzato concorso per narrativa friulano-giuliana. Ma qualcosa non mi torna, non ho capito chi componga la giuria, quali i criteri adottati, come - in brevissimo tempo dalla scadenza per l'invio - sia già stata compiuta la selezione dei lavori ( soli 6 giorni), chi siano gli altri autori scelti per la pubblicazione. Insomma, grazie per l'onore di esser stata selezionata, ma preferisco non partecipare all'antologia e, sperando che qualcuno si diletti di racconti, il mio lo pubblico qua. Ricordando con tenerezza la vecchia signora che fu, al tempo in cui si svolge la storia, una delle giovani che lavoravano nel laboratorio della Cappellaia.



LA CAPPELLAIA

di Martina Luciani



“Andreina! Andreina!” gridò  la Signora Cappellaia, dal salottino dove teneva i registri e riceveva le clienti, con la solita voce fastidiosa che  usava esclusivamente con le sue dipendenti. Andreina si alzò dalla sua sedia, la prima attorno al grande tavolo a “U”, la sedia dell’apprendista ultima arrivata.   
Non sollevò nemmeno lo sguardo verso le sue quattordici compagne di lavoro, le umiliazioni di quelle prime giornate di apprendistato nel grande laboratorio di modisteria le producevano un costante bruciore agli occhi, quello che annuncia  lacrime irrefrenabili.   

Purtroppo di quel lavoro, ottenuto grazie ai buoni uffici di una parente, aveva bisogno, disperatamente bisogno. Ma la delusione era tal quale una sofferenza fisica, tanto più che il primo giorno si era presentata entusiasta invece che intimorita, si era immaginata che lavorare a far cappellini  fosse un modo per entrare in un mondo migliore di quello  sofferente cui lei apparteneva, un mondo dove la bellezza degli oggetti  compensasse  la bruttezza degli eventi degli anni precedenti, dove se una come lei poteva, con le sue mani, assemblare colori armoniosi  e forme aggraziate voleva dire che la vita poteva  riservare anche a lei cole, armonia e grazia.

Il laboratorio aveva una sua celebrità, in tutta Trieste, e nonostante la fine della grande guerra fosse appena dietro le spalle e il futuro apparisse incerto e persino poco rassicurante, lavorava moltissimo. A togliere il gusto, quasi l’obbligo, dell’eleganza femminile non era bastata la dissoluzione dell’Impero asburgico, le lacerazioni nel tessuto multilingue e pluriculturale su cui era disegnata la mappa urbana,  le inquietanti evoluzioni politiche, la contrazione economica post bellica e l’evidente dilagante povertà della comunità cittadina, la scomparsa di un ceto benestante di lingua tedesca che aveva, volente o nolente, abbandonato i ranghi dell’amministrazione pubblica sostituito da funzionari giunti dal Regno d’Italia.
I negozi di tessuti, nonostante la difficoltà degli approviggionamenti, avevano riaperto, le nuove sartorie avevano sostituito quelle vecchie, e altrattanto valeva per le modisterie. La Signora, con notevole spirito commerciale, da un giorno all’altro, si era audacemente buttata nell’ impresa non da poco di fondare un laboratorio di modisteria tutto suo. E aveva fatto bene, il mestiere  lo conosceva  a fondo perché per anni aveva lavorato in un blasonato laboratorio della città, chiuso in fretta e furia dai proprietari,  che se ne erano tornati alla natia Vienna, chiudendo baracca e burattini in soli quindici giorni dopo  l’arrivo nel porto della nave che trasportava nella capitale imperiale  le salme dell’arciduca Francesco Ferdinando e della moglie, assassinati a Sarajevo.    
In quegli anni di lavoro da dipendente si era costruita una personale reputazione, erano lodatissime dalla danarosa clientela la sua perizia e la sua creatività.
Sostenuta da una certa avvenenza e da un che di provocatorio nei modi che l’abbigliamento monacale da lavoro non riusciva a celare, aveva anche strizzato l’occhio, e non solo, a diversi dei mariti che accompagnavano le consorti troppo eccitate e occupate a scegliere e provare cappellini per accorgersi che i coniugi erano distratti dallo sguardo sfrontato e dal misurato ma inequivocabile ancheggiare della giovane che le assisteva negli acquisti.
Quindi, al momento di realizzare il progetto del suo laboratorio e per ottenere gli opportuni appoggi finanziari e burocratici, aveva sollecitato e riscosso la complicità di segreti amanti che, per sua fortuna, dopo la guerra erano velocemente saliti ai vertici della nuova classe politica locale e che efficacemente l’aiutarono: un po’ per qualche rimasuglio di tenerezza e vecchi audaci ricordi, un po’ per saldare il conto di qualche notte appassionata e non aver più nulla a che fare con lei.
Il laboratorio occupava, comprendendo anche le stanze private della Signora, un intero piano del grande palazzo all’angolo della piazza, proprio accanto alla rumorosa stazione dei tram, dove Andreina scese in una già calda mattina d’estate, arrivando giù in città dalle alture del Carso, da casa sua a Opcina, anzi Opicina in buon italiano.

Andreina aveva respirato profondamente prima di varcare il signorile portone d’ingresso, arricciando un po’ il naso perché era ancora forte il puzzo del fumo causato dal terribile incendio del Narodni Dom, e dell’intero edificio che, in una via lì accanto, ospitava la Casa nazionale degli sloveni della città.
Salita in fretta al primo piano, aveva suonato con cortesia e decisione al campanello, ed era entrata con il suo bel sorriso, pieno di gioia appena appena velata dalla timidezza, salutando con un buongiorno che assolutamente non tradiva l’uso familiare del dialetto sloveno. Come prudentemente suo padre, dal letto dove era bloccato dalla malattia, le aveva raccomandato la stessa mattina, prima che lei corresse via da casa verso la sua nuova vita.
Da quel giorno, quello era stato il suo ultimo sorriso.

La Signora Cappellaia era piccola di statura, grassoccia, agghindata da troppi merletti  sui quali scintillava un triplice filo di perle, i capelli ancora biondi riuniti in una complicata treccia, invece che avvolta attorno al capo, come ancora qualcuna usava, giovanilmente appoggiata sul petto insieme a pizzi e perle. Poteva sembrare – oh per un attimo soltanto -  una vecchia zia, amabile e noiosa.   
Ma dopo le prime poche parole pronunciate dalla Cappellaia, in un italiano che tentava con l’affettazione di celare la cadenza dialettale di cui risuonavano i vicoli malfamati della Citta Vecchia, Andreina  si sentì l’essere più spregevole ed incapace dell’universo mondo, così infimo che nemmeno la dedizione totale al lavoro e la conquista della più grande perizia avrebbero potuto consentirle una condizione di maggior dignità.
Al primo incontro, e poi ogni volta che un’occasione offriva il destro per i rimbrotti, la Signora fu esplicita: il fatto che Andreina fosse stata accettata come apprendista dipendeva solo dall’adempimento  di un vecchio obbligo di gratitudine, al quale non c’era stato modo di sottrarsi, della Cappellaia verso l’anziana prozia di Andreina. Non fu spiegato che la vecchietta in questione  aveva relazioni personali che le garantivano in città una certa influenza, grazie ad un forte legame di vecchia data con l’aristocratica romana moglie dell’avvocato capo del Fascio locale. Un personaggio emergente,
avviato con successi crescenti ai vertici della politica nazionale, di cui tutti conoscevano la spregiudicatezza e del quale, proprio in quei giorni, si sapeva perfettamente quanto avesse avuto a che fare con l’incendio del Narodni Dom. Insomma, un diniego alla richiesta di assumere Andreina avrebbe potuto innescare un qualche imbarazzo, inopportuno per gli affari e per il quieto vivere.   

Non c’era nulla di quanto Andreina avesse fatto in quelle terribili prime giornate che non fosse stato stigmatizzato con disprezzo dalla Cappellaia, che appariva magicamente alle sue spalle proprio nell’attimo in cui un pezzo di feltro scivolava dal tavolo a terra, un rotolo di nastro si ingrovigliava, un ago le scivolava tra le dita per infilarsi a terra in una fessura del pavimento di legno, la forma di legno su cui modellare una calotta si ribaltava con un tonfo.
Andreina  incassava come colpi sulla schiena i rimbrotti, mormorava delle scuse, il dispiacere la ingobbiva al suo posto di lavoro e diventava ancora più maldestra.
Se sui volti delle sue compagne ci fossero, in quei momenti, espressioni di ironia o di solidarietà, questo Andreina non lo sapeva: la vergogna e l’imbarazzo di essere continuamente ripresa e trattata da inetta arrossavano le sue guance, la facevano tenere gli occhi bassi, ancor più bassi sul lavoro tra le mani tremanti.
Al termine della giornata, ogni sera, fuggiva a prendere il tram, senza scambiare una parola con le altre ragazze, sgattaiolando tra i gruppetti che cicalecciavano nello spogliatoio dove riponevano i camici neri e le sopra maniche e si preparavano per uscire.

“Andreina!” il richiamo fu ripetuto con minacciosa asprezza. Si alzò di scatto dalla sedia e girando attorno al grande tavolo si diresse verso lo stanzino attiguo. Era la metà del pomeriggio, l’ora del bicchier d’acqua per la Signora Cappellaia, incombenza che per consuetudine toccava alla nuova apprendista.
Nei giorni precedenti, da quando aveva cominciato a lavorare,  l’incarico di portare da bere alla Cappellaia l’aveva sostenuto qualcun’altra delle lavoranti, perché Andreina era stata mandata a fare delle consegne, sostituendo il fattorino che - così i mormorii spaventati delle compagne - era stato conciato male durante i tafferugli avvenuti a contorno dell'incendio del Narodni Dom.
Ma stavolta, ormai rientrato al suo posto il fattorino con un po’ di lividi sul volto, era arrivato per forza il suo turno, glielo aveva gracidato la Cappellaia stessa al termine dei consueti rimproveri del primo mattino.

Nello stanzino, sopra un tavolo, c’era la bottiglia d’acqua di Vichy, preparata come al solito dalla cameriera personale della Cappellaia. Accanto un vassoio, con una tovaglietta di pizzo d’Idria, e un grande bicchiere di cristallo.
Andreina versò l’acqua nel bicchiere, le bollicine produssero nel silenzio un rumore che le sembrò quello di una cascata. Sospirò. Certamente sarebbe accaduto qualcosa di terribile nel tragitto verso il salottino della Signora. Sollevò cautamente il vassoio, controllando l’oscillazione dell’acqua rientrò in laboratorio.
Si trovò di fronte Leonora, la più esperta delle lavoranti, alta, bella, il volto incorniciato da una gran massa di capelli chiari a stento trattenuti da un fermaglio. Leonora la guardava con il viso serio, eppure gli occhi azzurri le brillavano divertiti.
Prese con delicatezza il vassoio dalle mani di Andreina e nel voltarsi verso il tavolo le ammiccò, come a voler dire “…stai a vedere”.
Tutte le altre quattrodici ragazze si erano silenziosamente alzate ed erano in piedi alle spalle delle loro sedie.Leonora si avvicinò all’estremità destra del tavolo e porse il vassoio alla prima compagna. E questa, accennando una specie di comica riverenza, intinse il dito nel bicchiere, tutto quanto, con attenzione a non far schizzare fuori l’acqua. Poi fu la volta della ragazza seguente, e di quella più oltre.
Leonora avanzava reggendo il vassoio con solennità, come se stesse compiendo un rito, mentre le ragazze una dopo l’altra intingevano l’indice, svelte e caute complici ben affiatate. Nemmeno una goccia venne versata.
Milioni di piccolisimi peli dei feltri maneggiati per ore e ore dalle ventotto mani operose finirono nell’acqua di Vichy, invisibili oltre le sfaccettature del cristallo ed appena percettibili, anche a chi non fosse presbite come la Cappellaia, sulla superficie del liquido.
Terminato il giro, Leonora si avvicinò ad Andreina.
“Tocca a te” sussurrò, e pareva si stesse raggiungendo l’apice di una cerimonia di iniziazione, tanto era misterioso il tono della sua voce.
“Se ne accorgerà”, rispose quasi senza voce Andreina, terrorizzata.
“Mai successo. Lo facciamo ogni giorno, da tanto tempo. Muoviti, su’”.  
E con sicurezza aggiunse:”Si sveglierà cappello, un giorno, la Signora”.
Andreina intinse lentamente il dito nell’acqua fresca, badando a non gocciolare prese il vassoio e si diresse verso il salottino.

Entrò, la Cappellaia, immersa nei suoi merletti nonostante il caldo estivo, stava alla scrivania, leggendo delle carte. Non guardò nemmeno Andreina, allungò la mano verso il vassoio che la ragazza le porgeva, prese il bicchiere e lo vuotò in poche sorsate.
Andreina la fissava quasi in trance, persino ritardò una frazione di secondo ad allungarsi per recuperare con il vassoio il bicchiere che la Cappellaia, sempre senza voltarsi e continuando a leggere, stava restituendo. Lo colse al volo con un breve slancio, evitando per un nulla che finisse a terra.
“Sei incredibilmente stupida e maldestra” chiocciò l’altra, fissandola con derisione da sopra gli occhialetti.
“Certo Signora”, rispose con deferenza Andreina, e quasi rideva.
“Un giorno ti sveglierai cappello”, le promise mentalmente, guardandola bene in faccia.
Si voltò, inciampò sull’orlo di un tappeto, bloccò il bicchiere sul vassoio con il palmo della mano e uscì urtando con fracasso lo stipite della porta.
Ma che importava, già la vita si era fatta meno dura, la stanza delle lavoranti non pareva più un luogo sconociuto e ostile, l’ora di andar via meno lontana.
Le compagne, tutte ritornate al lavoro, erano più vicine mentre Andreina si risiedeva al suo posto, cogliendo quattordici sorrisi, luccicanti di simpatia e malizia, sopra quattrodici cappelli quasi terminati.