mercoledì 24 febbraio 2016

Commercio sotto tutela: affitto locali e costo dell'automezzo per il 50 per cento a carico della Regione



La questione delle chiusure festive dei negozi attira, o forse distrae,  l'attenzione dei consiglieri regionali in un ddl a favore del commercio e delle associazioni di categoria


di Marilisa Bombi

Dovrebbe iniziare domani, in Consiglio regionale, la pantomima che ha come soggetto gli orari di vendita nei negozi o meglio le chiusure obbligatorie. Per quanto mi riguarda, sono stata sempre contraria alla liberalizzazione degli orari e, a questo proposito, partendo da alcune interessanti considerazioni del sociologo Sabino Acquaviva, il quale amaramente osservava come il “centro commerciale sia la cattedrale simbolica di questa nuova società in cui gli individui vengono educati a diventare consumatori adatti ad un sistema economico in cui è indispensabile produrre, retribuire chi produce, affinché consumi e quindi produca” ho sviluppato, tempo fa, alcune considerazioni a proposito. Ma il tempo passa, i costumi cambiano e mutano anche i comportamenti delle persone e non si può non tenerne conto.
Sta di fatto che ho letto nei giorni scorsi, non senza un po’ di ironia, della diatriba tra maggioranza ed opposizione a proposito della questione “vitale” delle chiusure obbligatorie dei negozi. E mi sono stupita anche delle agguerrite dichiarazioni dell’assessore Bolzonello il quale afferma che: «Con il Consiglio compatto resisteremo al Governo». Forse, all’assessore regionale come ai consiglieri di opposizione che hanno contestato la modestia del provvedimento è sfuggito il fatto che la Corte costituzionale ha già dichiarato incostituzionali analoghe iniziative avviate da Toscana e Veneto, in forza del fatto che la liberalizzazione degli orari rientrerebbe nella tutela della concorrenza, ovvero in materia di competenza esclusiva dello Stato. Più abile, invece, il Trentino Alto Adige che, proprio al fine di aggirare il problema, la cui conclusione dovrebbe essere davanti agli occhi di tutti, se solo la materia fosse stata approfondita come avrebbe dovuto, ha inserito la competenza in materia di orari e di urbanistica commerciale all’interno del disegno di legge costituzionale a modifica del proprio statuto (S.2220 presentato il 28 gennaio scorso).  Questione che non è stata minimamente presa in considerazione, invece, dal ddl costituzionale per la modifica dello Statuto del Friuli Venezia Giulia, approvato dalla Camera il 2 febbraio e passato adesso, in seconda lettura al Senato. Sta di fatto che l’iniziativa “politica” della Giunta regionale ha introdotto l’obbligo della chiusura dei negozi nelle seguenti giornate: 1 gennaio, Pasqua, lunedì dell’Angelo, 25 aprile, 1 maggio, 2 giugno, 15 agosto, 25 e 26 dicembre. Una miscellanea di feste religiose (cattoliche) e civili, tanto per non scontentare nessuno.
Strano comportamento, peraltro, quello del Consiglio regionale della Regione Friuli Venezia Giulia che, nel tempo, ha fatto sì che il Friuli Venezia Giulia sia al vertice nel rapporto tra abitanti e superficie di esercizi della grande distribuzione, salvo, poi, cercare di tutelare il commercio tradizionale impossibilitato a fronteggiare la concorrenza spietata di ipermercati e centri commerciali. Si vedrà l'esito del dibattito ma pare proprio che gli orari siano stati l’argomento “civetta” che ha distratto i consiglieri da quello che, dalla lettura del disegno di legge, pare essere il clou delle novità: ovvero i finanziamenti previsti dall’art. 100 (Contributi per lo sviluppo delle micro, piccole e medie imprese commerciali, turistiche e di servizio) determinati nella misura del 50 per cento delle spese sostenute per una pluralità di investimenti, che vanno dall' acquisto  di  arredi e attrezzature, automezzo compreso, al canone di locazione. Insomma, non soltanto agevolazioni per micro imprese che possono essere ricondotte al commercio tradizionale, tenuto conto del numero di addetti (non superiore a 10) ed un fatturato oppure un totale di bilancio annuo non superiore a 2 milioni di euro, ma anche alle imprese con 250 dipendenti ed un fatturato di 50 milioni di euro. E' qualcosa di sinistra?



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