mercoledì 15 giugno 2022

Aphrodisias, Asia proconsolare: visioni eccentriche.


Appunti di un viaggio in Turchia, alla ricerca di un nesso tra le infinite varianti dei miti, con la chimera di percepire le tracce dell’originaria civiltà matriarcale. Per me è stato un viaggio con Leucò, perché i Dialoghi  di Pavese di nuovo si sono rivelati un libro totemico, che mi consente la confortante sensazione di appartenere individualmente a tutti i tempi della storia e di poter attingere a depositi di memorie infiniti anche senza una banca dati telematica.

Da “ In viaggio con Leucò”(2019) 
di Martina Luciani
 

 

Aphrodisias nel folclore dei turisti è la città della Caria dedicata alla dea dell’amore.
Definizione che è la semplificazione estrema del fatto che Afrodite,  elaborazione ellenica di arcaiche divinità femminili,  rappresenta la qualità energetica motore di armonia e bellezza nel mondo. 
Questa qualità permea di sé il sito archeologico e un tempo si esprimeva in diversi talenti dei suoi remoti abitanti, inclusa la vocazione, massimamente espressa in epoca romana,  alla diplomatica accettazione e utile gestione del  rassicurante abbraccio del potere imperiale. 
Finiscono in secondo piano, nell’approccio del moderno forestiero con lo stupendo sito archeologico, le ragioni dello stretto e privilegiato  rapporto tra la città asiatica e la capitale in Italia.
Roma   aveva scelto la dea Afrodite,  chiamandola Venere, per  descrivere le proprie origini divine.

La storia è nota: Afrodite, avvolta nel manto rosso delle principesse frigie (mentre attorno ronzavano le api: dettaglio rilevante, spesso le dee Madri medio orientali erano accompagnate dalle api), sedusse Anchise, mandriano e re dei Dardani, in una capanna sul monte Ida, nelle vicinanze di Troia. Tralascio i dettagli sulla sfuriata di Zeus quando ne fu informato.
Fatto sta che, in seguito a quella notte d’amore, Afrodite partorì Enea, colui che salvatosi dal massacro di Troia fuggì con i familiari e le immagini sacre, approdando infine sulle coste italiche.
In questo modo Roma aveva marchiato con una sorta copyright  olimpico tutta la propria storia politica e militare, e le sue pretese al  dominio sopra il mondo conosciuto.
Quando poi  Roma si mette in viaggio verso Oriente e arriva in una città interamente dedicata ad Afrodite, che fa? Se ne impossessa, seppur con belle maniere, poi mette all’opera artisti e architetti e la colma di prestigiosi riferimenti ad imperatori e condottieri: è come brevettare un eccezionale marchio religioso, anzi  è fondare una prodigiosa zona DOC, nella quale  l’albero genealogico imperiale affonda le radici, lo spazio fisico della celebrazione di fronte all’universo dei nobili legami familiari, l’ulteriore giustificazione della sottomissione della provincia d’Asia minore ai Romani.   


Saldamente affratellate nel mito, Roma e Aphrodisias  costruirono tra loro, certamente anche grazie alla diplomazia locale,  un legame duraturo e particolare,  nel quale alla seconda erano assicurati una serie di privilegi politici, fiscali, amministrativi.
Non mi pare insensato considerare questo fatto, oltre che come abile strategia romana nelle province, anche  come  prezzo simbolico  dell’aver messo a disposizione dei potenti stranieri la propria divinità tutelare ed il luogo in cui, fin da epoche remote, essa veniva evocata.  Lo spazio fisico, cioè, dove più e meglio che altrove veniva percepita la forza  della dea primordiale, nel tempo evolutasi con le forme più delicate dell’ellenica Afrodite.  

La città corrispose con generosità agli onori istituzionali elargiti da Roma, associando  senza remore imperatori e relative consorti al culto di Afrodite e producendo, grazie alle mani d’oro dei suoi artisti e artigiani (che spesso vantavano l’appellativo Afrodisieus, incidendolo in aggiunta a nome e patronimico sulle loro opere)  le meraviglie architettoniche e statuarie che hanno meritato il vincolo Unesco di “patrimonio dell’umanità”.
 
Sosto a lungo nei luoghi di questa città, circondata da un luminoso orizzonte di campagne e alture già imbiancate dalla prima nevicata d’ottobre.
La suggestione qui fluisce come un facile incantesimo.
Se ascolti, se guardi di sguincio, riesci a sentire, riesci a vedere:
il vocio di 30 mila spettatori  che attendono l’inizio dello spettacolo nel il teatro scavato in una collina, l’andare e venire di  gente che passeggia o mercanteggia nell’agorà con il sottofondo musicale delle acque gorgoglianti appositamente incanalate per coinvolgere nella percezione estetica degli occhi anche quella delle orecchie, lo scorcio di gruppo di notabili accalorate a discutere di questioni cittadine nell’Odeon, laggiù due amici escono parlottando dalle Terme e si avviano verso lo Stadium da cui risalgono le accalamazioni degli spettatori, i partecipanti ad una celebrazione del culto imperiale nel Sebasteion se ne vanno ammirati, stupefatti dal tripudio architettonico e statuario che testimonia l’intreccio tra il potere divino e quello umano e imperiale, altri personaggi che al Sebasteion invece si recano per ragion ben diverse dal culto, visto che negli spazi appositamente attrezzati si svolgevano  attività commerciali di particolare pregio e cospicue trattative bancarie ( del resto ci vogliono capitali ingentissimi per erigere e poi gestire queste enormi strutture cittadine, ed una volta ottenuti bisogna anche opportunamente farli fruttare).


Meno facile è mettersi in relazione con il Tetrapylon. 
Cammino lungo il tracciato che dall’Odeon porta al Museo,  un po’ l’ubriacatura archeomitologica si è placata, tanto che riesco persino ad osservare alcune piante che non conosco sul bordo della stradina.
D’un tratto mi ritrovo in un ampio prato, in mezzo c’è una aerea ed insieme potente costruzione, piena di cielo, luce e marmo plasmato come fosse zucchero filato, una sorta di grandioso passaggio che immetteva i pellegrini al santuario di Afrodite. 
Giro dentro e fuori tra i quattro gruppi di quattro colonne ognuno, ma non riesco mai a ritenere di averlo visto davvero, il Tetrapylon, e potrei continuare per ore, come se gli spazi scanditi dalle colonne e inondati di grazia fossero un misterioso labirinto che si riproduce all’infinito e in cui è stupendo perdersi. Non sai se questo luogo ti fa respirare profondamente come mai hai saputo fare o se sei invece sopravvivi sorridente in una lunga apnea, abbacinata dalla meraviglia, in una antica dimensione di arte, grazia e confortante percezione del divino.

Penso che non può bastare un intento fortemente celebrativo, per riuscire a progettare e creare simile bellezza,  che comunque deve assolvere anche a necessità di tipo logistico e amministrativo, c’è attorno una città piena di gente che ci vive e che ci lavora ( oggi la bruttezza è il pane della nostra quotidianità produttiva e sociale e io ne sono intrisa, che voglia o non voglia).
 Bisogna essere in grado di attivare grandiosi talenti e grandiose competenze. Ma il flusso che produce la creazione origina da imprinting culturali che non si imparano nei laboratori degli scultori.
Qui ad Aphrodisias è facile immaginare che essi promanino dal genius loci, la dimenticata Grande Madre che poi si fa riconoscere in svariati culti femminili fino ad assumere la fisionomia Afrodite, potentemente evocatrice nel cielo, nella terra e nelle acque  dell’armonia cosmica che regola tanto la semplicità perfetta del volo delle api o del balzo del delfino nel mare quanto la sapienza creatrice umana.


AFRODITE. LA SINTESI PERFETTA

Ed eccola, nel Museo di Aphrodisias, la statua che proviene dal tempio alla dea, eretto nel primo secolo a.C. sul sito già anticamente - ma proprio tanto anticamente - dedicato al culto.
Sia la postura, non dissimile dall’Artemide efesina, sia alcuni particolari che echeggiano i culti arcaici e permangono accanto alle movenze stilistiche elleniche, rappresentano la continuità con il remoto passato anatolico: nessuno può dire se si tratti di un caso o di una voluta trasparenza che lascia scorgere epoche matriarcali, certo è che essa è replicata nelle copie della statua ad opera della schiera di scultori afrodisiensi,  accomunati da un eccezionale talento ( dote venusina evidentemente, quella di cavar bellezza dalla pietra informe)  e molto ricercati nelle città dell’impero romano.
 


Quando me la vedo davanti resto esterrefatta.  La rappresentazione del volto richiama l’appellativo di Myrtoessa,spesso attribuitole:  la fronte incorniciata da una corona di foglie di mirto, pianta tanto benaugurante fertilità e felicità  quanto funebre e collegata al mondo ctonio. La dualità simbolica  non è contraddittoria, anzi corrisponde alla doppia valenza delle potenti dee arcaiche, signore della vita e della morte, della luce e dell’oscurità.

Le tracce botaniche di questo ennesimo viaggio a ritroso in una spiritualità retrostante quella ellenica,  da quest’ultima  “civilizzata” in senso razionale e maschile ma mai definitivamente cancellata,  restano nei nomi di donne amazzoni , guerriere e profetesse,  Myrtò, Myrine, Myrsine, Myrtila…

L’ineffabile Afrodite di Aphrodisias (non saprei come descriverne altrimenti l’espressione) porta un copricapo, decorato con una stella a sei punte: una tiara, in cui si vuol riconoscere la cosiddetta corona muralis latina,cioè la rappresentazione della mura della città che la dea proteggeva. 
Ma è davvero una corona muralis? Le arcaiche Cibele e le altre manifestazioni della Grande Madre, indietro fino agli Ittiti,  venivano raffigurate con una simile alta corona cilindrica, il polos, che vediamo resistere attraverso i secoli, anche in  epoca ellenistica ( deliberato indizio o inconsapevole usanza? ) a rappresentare sul capo di Afrodite, ma anche di Artemide, la continuità con le origini.
L’idea che si tratti di una acconciatura arcaica – quindi un richiamo di memorie e non il mero simbolo di funzioni tutelari tutela sulla città - è sostenuta dal fatto che il culto della dea precede di gran lunga la città che pure porta il suo nome: gli studi hanno infatti confermato la posteriorità dello sviluppo vero e proprio di Aphrodisias rispetto l’esistenza del luogo sacro. Insomma prima la Dea, e poi la sua città.
Sul petto della statua, una falce di luna rivolta all’ingiù, sormontata da un germoglio riccioluto di felce. Siccome non capisco, scatto una foto, la invio immediatamente a Marco, il mio compagno di liceo diventato formalmente un naturopata ma alchimista fin nel midollo.
Confidando nella tecnologia delle comunicazioni internazionali via etere, rifletto su alcune osservazioni della nostra guida.  Che aveva riferito ridacchiando, a mo’ di gossip storico, una certa fama di Aphrodisias come città licenziosa e dai costumi piuttosto facili.  Ma che ci aveva anche detto che in molti villaggi della Caria ancora si rintraccia il permanere, quale eco di scomparse civiltà matriarcali, di ruoli femminili preminenti, e non solo nella gestione dei legami  parentali, anche nell’organizzazione delle imprese familiari e delle attività di piccolo commercio locale.
Marco, che non ha idea dove io mi trovi, dall’Italia mi risponde subito, a proposito della luna sul decolletè di Afrodite.
E’ un simbolo che equivale ad un trattato. Il gradiente al contrario è chiamato nel linguaggio esoterico “luna indecente”, simbolo sessuale che associato alla felce, il cui archetipo è saturnino, ci porta dritti dritti al fenomeno della prostituzione sacra, e quindi all’esistenza di un’organizzazione del culto della dea intrecciata con il fenomeno religioso e sociale della ierodulia, residuo fossile del Regno della Grande Madre e dei rituali per attivare il potere fecondante  universale delle forze sessuali.  
A Babilonia, la frase con cui la prostituta sacra veniva scelta per il compimento dell’atto sessuale era: invoco per te la dea Mylitta. Il suono di questo nome ricorda Melitta e Melissa, parola che significa ape: Melisse erano le ninfe che scoprirono il miele e da cui le api presero il nome,  Melissa era la principessa cretese sacerdotessa della Magna Mater, Melissai erano le sacerdotesse di Persefone/Core e Demetra, iniziate ai riti misterici ad Eleusi. Infine Cybele – l’antesignana frigia di Afrodite - era associata nel culto all’ape regina.
Ho visto scolpiti in bassorilievo su certe stele anche dei pesci, mi parevano coppie di delfini.  Creature dell’acqua mediterranea, dalla cui spuma è sorta Afrodite. La siriaca Atargatis, spesso raffigurata con la coda di sirena, è una dea pesce, che viaggiando al seguito dei mercanti fu ellenizzata e assimilata ad Afrodite. Quest’ultima, come il suo doppio latino, nella mitologia è associata anche alle creature marine. Le Metamorfosi, ad esempio, riferiscono che per sfuggire al mostro Tifone, Afrodite trasformò se stessa e il piccolo Eros che stringeva tra le braccia in due pesci, tuffandosi poi nell’Eufrate.


Insomma, la trama è fittissima, si stende su territori  in gran parte inesplorati  e compone un disegno che rende risibile e anche un po’ meschina la nomea di Aphrodisias città licenziosa.
Possiamo invece, e piuttosto, visitarla considerandola l’approdo, accuratamente mimetizzato, di un percorso che parte dalle oscure profondità di precedenti culti anatolici, sumerici, fenici, egizi, ittiti della Grande Madre,  cardine dell’assetto sociale e religioso matriarcale. Una via che  conduce per passaggi sempre più ostruiti  al sacro recinto di Afrodite ( sacer significa separato, e ciò che viene tenuto lontano è il profano), al tempio dove le ierodule celebravano rituali sessuali di origine antichissima, frettolosamente etichettati dai censori dell’ordine patriarcale come orgiastici.
 Di fatto questa condanna, comminata già in epoca ellenica con tutte le possibili reazioni scandalizzate, era semplicemente uno dei modi per svilire la Dea Madre e per troncare con un passato remoto in cui  il rituale sessuale era strumento di percezione della Natura, di evocazione e appropriazione delle sue energie primordiali, di  mezzo per rafforzare l’unità e la solidarietà dei viventi e per attirare fertilità  e protezione sulle comunità degli umani. 

Pavese in uno dei Dialoghi fa dire a Iasone, che parla con la ierodula Melita scesa dal tempio di Afrodite a Corinto nella dimora del vecchio re, condottiero della spedizione degli Argonauti per la conquista del vello d’oro: “Piccola Melita tu sei del tempio. E non sapete che nel tempio – il vostro – l’uomo sale per essere dio almeno un giorno, almeno un’ora, per giacere con voi come foste la dea?” 
La piccola sacra prostituta non è dunque una reietta professionista del sesso a pagamento. E’al servizio diretto di Afrodite, che durante la visita di Aphrodisias raccomando di percepire come una delle molteplici forme della Dea-madre anatolica, egea e mediterranea primordiale.  
Il nome della ierodula, infine, riecheggia il nome Mylitta, che è quello con cui gli  antichi Assiri chiamavano Afrodite: “…anche tu sei la dea”, le dice Iasone, e a Occidente c’è un’isola che porta il suo stesso nome, Melita dove si trova un gran santuario della dea. Quell’isola oggi si chiama Malta ed è scrigno prezioso di reperti archeologici che ci riconducono alla preistoria femminile del divino.



 

Nessun commento: