Nemmeno le
emergenze sanitarie riescono a disattivarli. Sono gli odiatori seriali.
Non sono categorie distinguibili fra loro, contraddistinte da contenuti, metodi
e finalità peculiari ma sono sempre pronti ad infiltrarsi ovunque. Sono portatori di una disabilità dell'anima e ammorbano la comunità dei consociati.Ho una teoria sulla loro presenza.
di Martina Luciani
Sono sempre gli stessi che si circostanziano di volta in volta, mollano una presa e si accaniscono su un'altra preda. Transitano fluidi e compatti come branchi di piccoli pesci, non se ne perde uno nemmeno quando il cambio di rotta è repentino, fulmineo.
Prediligono gli assembramenti virtuali, dove possono liberare tutto il proprio potenziale con la sensazione di essere stati efficaci, di aver inciso il proprio segno nella realtà dei consociati tutti e di aver determinato, con il proprio contributo di rancore, di disprezzo e di ferocia, la definitezza dello stigma che in quel momento è loro obiettivo e significato.
Ho una
teoria per spiegare questo fenomeno:è atroce,lo riconosco.Quindi potete sospendere qui la lettura se non volete affrontare parole fastidiose.
Mi sono convinta che odiare con tanta sicurezza e impudicizia è una sorta di brutale riscatto dalla condizione di irrilevanza e inferiorità che nei secoli, a partire dalle più antiche forme di schiavitù, ha imprigionato gli individui.
Li ha confinati, per tempi infiniti,in miseria, malattia, fatica, ignoranza.
Ma soprattutto, mancando anche solo l’ipotesi di un riscatto e liberazione, li ha resi apatici, vinti senza nemmeno aver combattuto, incapaci di un progetto che li spingesse fuori dalle dinamiche della mera sopravvivenza, brutali esse stesse come la sudditanza che li opprimeva.
Pensate al villaggio di capanne sbilenche, tenute assieme con il fango e addossate alle mura del castello, esposto a qualsiasi incursione e devastazione. Ad una vita di espedienti e di paura, perchè là fuori non c’è diritto e non c’è giustizia, ed i diritti e la giustizia che si praticano dentro le mura sono sempre e soltanto contro chi sta fuori.
E questo si replica di padri in figli, di madri in figlie; se anche germogliasse una speranza di riscatto e liberazione, subito verrebbe spazzata via da una guerra, una carestia, una pestilenza.
Certo, a volte gli schiavi si ribellano, le genti oppresse si strappano fuori dal fango e dall’ombra delle loro vite senza valore, a volte i miserabili organizzano audaci resistenze, persino intere rivoluzioni per rovesciare il potere che opprime; a volte uccidono i dominanti con agguati in cui perdono la loro stessa vita. Ma sono eccezioni. Che il mito e la leggenda tramandano.
Insomma, pensate a generazioni e generazioni di individui costretti in un infimo livello sociale e in una condizione fisica e psichica durissima.
Le memorie collettive si intridono irreparabilmente di sofferenze di ogni genere, con la perseveranza dei fenomeni evolutivi si stabilizzano e radicano: forse assurgono a veri e propri archetipi, ombra fitta e palpabile che attende, inattiva nei recessi dell’inconscio, di rendersi protagonista di immani disastri.
Forse sono conservate dal sangue: avete presenti le espressioni “ buon sangue, non mente” o “ ce l’ha nel sangue” o “il sangue non è acqua”? Ecco, semplicemente la memoria del sangue.
Poi per svariate ragioni storiche le cose vanno meglio.
In alcuni luoghi di più, in altri di meno, nel corso dei secoli, l’individuo e i gruppi di individui emergono dal buio e progrediscono. Lottano per questo, e lottando migliorano, accumulano consapevolezze, piccole e grandi sapienze, convinzioni.
Però il codice genetico - fisico o simbolico non ha molta importanza se non per i terapeuti - continua a conservare le più antiche informazioni, e le tramanda.
A volte l’effetto di questa ereditarietà è pedagogico o persino catartico.
Nel senso che a volte accade qualcosa che disimpegna porzioni della coscienza degli individui, le libera dalle esigenze di mera sopravvivenza, le risveglia dall’apatia e dalla sottomissione: così la paura, l’istinto rettiliano a reagire alla ferocia altrui e cercare salvezza, la frustrazione del vinto che non ha nessuna possibilità di ribellione, vengono rielaborate, mutano, da fossili che immobilizzano l’anima diventano batteri utili alla vita. Come un germoglio primaverile compare dapprima un anelito e poi la volontà di vivere una vita migliore, l’homo homini lupus riorganizza le sue relazioni con gli altri, la sottomissione diventa coraggio di reagire, maturano capacità produttive di benessere e ricchezza morale, culturale e artistica, prendono forma gli ideali di uguaglianza, giustizia sociale e libertà.
A volte invece no. L’ereditata e subliminale memoria di secolari esperienze di vita miserabile si limita ad esigere una qualche reazione: la proporzionale vendetta, oggi per allora, di quanto subito in tempi antichi.
Ecco perché oggi ci ritroviamo accanto l’odiatore seriale.
Gli è concesso esserlo perché altri, molti altri prima di lui, hanno combattuto perché fosse libero, perché avesse diritti, tutele e garanzie: a cominciare dal diritto di parola ( nella prudente formula dell’isegoria greca) che si trasforma nel diritto di parlare di qualunque cosa (la compiuta parresia).
Ma, come ci insegna Karl Kraus, la bruttezza del presente ha valore retroattivo, e ciò che l’odiatore seriale intravvede nel passato assomiglia solo al suo personale presente, pieno di lustrini ma intimamente brutto e denso di manipolazioni e strumentalizzazioni: non riconosce nulla di valoroso e glorioso e coraggioso da tenersi stretto come principio fondamentale per far parte e contribuire ad una società armoniosa e pacifica.
Costui approfitta delle pregresse conquiste su cui si fonda la società delle libertà e dei diritti, ottenute da persone che avevano metabolizzato ideali, sentimenti e principi di cui lui è invece privo. Questa miseria intellettuale e morale è il frutto anche della recente evoluzione - più precisamente, i contesti in cui è avvenuta la sua formazione ed educazione - pilotata in modo che non potesse osservare, capire einteriorizzare le ragioni e i fatti grazie ai quali ha libertà e diritto di parola.
Insomma, ciò di cui dispone, in termini umani e civili, è semplicemente ciò che è stato costretto ad osservare, tra le quinte della società di massa e del mercato dei consumi parossistici: stereotipi e oggetti, attraverso i quali ottenere la promessa realizzazione. Così i meccanismi ereditari dell’odio si consolidano per mezzo dell’invidia, che è il fallimento e la degenerazione dell’anelito all’uguaglianza e alla giustizia.
Ma non è tipo, il nostro odiatore seriale, da scendere in piazza (lo fa di rado, in maniera da non essere riconoscibile come individuo ma solo come banda), da mettere la faccia in grandi e piccole manifestazioni, da sorreggere a fronte alta striscioni di protesta nei cortei. Del resto, come abbiamo visto, non ha ideali e fa molta fatica anche solo a comprendere cosa siano. Ha solo uno scopo: contrapporsi, vendicarsi, azzannare e fuggire.
L’invidioso, rancoroso odiatore seriale si esprime dunque in contesti protetti.
E migliora l’efficacia dei suoi veleni quando ispirato dalla tracotanza e dalle manifestazioni di odio espresse dai capi sociali e politici che, proprio in forza di quelle, mantengono il consenso e la posizione dominante.
Replica i mantra con cui è stata aizzata la sua attenzione, con cui è stata lusingata la sua benevolenza. Siccome sa scrivere, leggere ed usare quel tanto che basta della tecnologia, è in grado di adattare l’odio atavico ai moderni rancori. Se poi l’oggetto delle sue attenzioni è una donna, l’odiatore seriale – maschio o femmina che sia – all’odio aggiunge il gusto osceno della persecuzione sessista.
E così gli riesce una moderata espansione nello spazio e nel tempo, il che sarebbe irrilevante se non avesse il modo di interagire con altri odiatori seriali come lui.
Purtroppo ce l’ha. Va a finire che diventano una massa critica, che ha pochi contenuti ma produce tanto rumore.
Produce anche azioni, spregevoli sempre: la pratica della delazione, spesso senza nemmeno un guadagno tangibile, è una di queste. Nei tempi del Covid-19 , la delazione si è malcelata in una supposta pratica di civile vigilanza a tutela della collettività e contro i pericolosi portatori del virus. Ma la denuncia della donna quale strega, dell’eretico, del concittadino ebreo, sloveno o partigiano, del profugo con le piaghe sui piedi che dorme in un parco pubblico, avevano e hanno la stessa identica matrice genetica, quella dell’odiatore seriale.
Cercare di spiegare la tragica pochezza o la falsità dei contenuti con cui, al sicuro sul web o nel capannello al bar Sport, di volta in volta l’odiatore seriale si scaglia contro questo o quello, è inutile: perché non conosce la dialettica, a lui basta sentire il proprio gridare, sentire in bocca il sapore della brutalità, compiacersi dell’eco delle urla simili alle sue.
Quello che invece funziona con gli odiatori seriali è alimentarne la cacofonia, guidarla con l’accortezza del direttore d’orchestra e approfittarne per trarne consenso. Politico? Certo, la più facile conquista del potere passa di lì.
Allora, oltre a diffondere la consapevolezza del rischio immane del cosiddetto hate speech (e delle sue conseguenze pesantissime in ogni aspetto della vita collettiva), oltre ad educare e promuovere stili e qualità di vita “non ostili”, proviamo anche ad innalzare mura di silenzio attorno all’odiatore seriale. Strepiterà per un po’, ma poi non avendo reazioni che lo alimentano e spettatori alle sue esibizioni, poco per volta si zittirà.
La mia ovviamente è una speranza, se non funzionasse nemmeno questo, proprio non riesco ad immaginare nient’altro.
Mi sono convinta che odiare con tanta sicurezza e impudicizia è una sorta di brutale riscatto dalla condizione di irrilevanza e inferiorità che nei secoli, a partire dalle più antiche forme di schiavitù, ha imprigionato gli individui.
Li ha confinati, per tempi infiniti,in miseria, malattia, fatica, ignoranza.
Ma soprattutto, mancando anche solo l’ipotesi di un riscatto e liberazione, li ha resi apatici, vinti senza nemmeno aver combattuto, incapaci di un progetto che li spingesse fuori dalle dinamiche della mera sopravvivenza, brutali esse stesse come la sudditanza che li opprimeva.
Pensate al villaggio di capanne sbilenche, tenute assieme con il fango e addossate alle mura del castello, esposto a qualsiasi incursione e devastazione. Ad una vita di espedienti e di paura, perchè là fuori non c’è diritto e non c’è giustizia, ed i diritti e la giustizia che si praticano dentro le mura sono sempre e soltanto contro chi sta fuori.
E questo si replica di padri in figli, di madri in figlie; se anche germogliasse una speranza di riscatto e liberazione, subito verrebbe spazzata via da una guerra, una carestia, una pestilenza.
Certo, a volte gli schiavi si ribellano, le genti oppresse si strappano fuori dal fango e dall’ombra delle loro vite senza valore, a volte i miserabili organizzano audaci resistenze, persino intere rivoluzioni per rovesciare il potere che opprime; a volte uccidono i dominanti con agguati in cui perdono la loro stessa vita. Ma sono eccezioni. Che il mito e la leggenda tramandano.
Insomma, pensate a generazioni e generazioni di individui costretti in un infimo livello sociale e in una condizione fisica e psichica durissima.
Le memorie collettive si intridono irreparabilmente di sofferenze di ogni genere, con la perseveranza dei fenomeni evolutivi si stabilizzano e radicano: forse assurgono a veri e propri archetipi, ombra fitta e palpabile che attende, inattiva nei recessi dell’inconscio, di rendersi protagonista di immani disastri.
Forse sono conservate dal sangue: avete presenti le espressioni “ buon sangue, non mente” o “ ce l’ha nel sangue” o “il sangue non è acqua”? Ecco, semplicemente la memoria del sangue.
Poi per svariate ragioni storiche le cose vanno meglio.
In alcuni luoghi di più, in altri di meno, nel corso dei secoli, l’individuo e i gruppi di individui emergono dal buio e progrediscono. Lottano per questo, e lottando migliorano, accumulano consapevolezze, piccole e grandi sapienze, convinzioni.
Però il codice genetico - fisico o simbolico non ha molta importanza se non per i terapeuti - continua a conservare le più antiche informazioni, e le tramanda.
A volte l’effetto di questa ereditarietà è pedagogico o persino catartico.
Nel senso che a volte accade qualcosa che disimpegna porzioni della coscienza degli individui, le libera dalle esigenze di mera sopravvivenza, le risveglia dall’apatia e dalla sottomissione: così la paura, l’istinto rettiliano a reagire alla ferocia altrui e cercare salvezza, la frustrazione del vinto che non ha nessuna possibilità di ribellione, vengono rielaborate, mutano, da fossili che immobilizzano l’anima diventano batteri utili alla vita. Come un germoglio primaverile compare dapprima un anelito e poi la volontà di vivere una vita migliore, l’homo homini lupus riorganizza le sue relazioni con gli altri, la sottomissione diventa coraggio di reagire, maturano capacità produttive di benessere e ricchezza morale, culturale e artistica, prendono forma gli ideali di uguaglianza, giustizia sociale e libertà.
A volte invece no. L’ereditata e subliminale memoria di secolari esperienze di vita miserabile si limita ad esigere una qualche reazione: la proporzionale vendetta, oggi per allora, di quanto subito in tempi antichi.
Ecco perché oggi ci ritroviamo accanto l’odiatore seriale.
Gli è concesso esserlo perché altri, molti altri prima di lui, hanno combattuto perché fosse libero, perché avesse diritti, tutele e garanzie: a cominciare dal diritto di parola ( nella prudente formula dell’isegoria greca) che si trasforma nel diritto di parlare di qualunque cosa (la compiuta parresia).
Ma, come ci insegna Karl Kraus, la bruttezza del presente ha valore retroattivo, e ciò che l’odiatore seriale intravvede nel passato assomiglia solo al suo personale presente, pieno di lustrini ma intimamente brutto e denso di manipolazioni e strumentalizzazioni: non riconosce nulla di valoroso e glorioso e coraggioso da tenersi stretto come principio fondamentale per far parte e contribuire ad una società armoniosa e pacifica.
Costui approfitta delle pregresse conquiste su cui si fonda la società delle libertà e dei diritti, ottenute da persone che avevano metabolizzato ideali, sentimenti e principi di cui lui è invece privo. Questa miseria intellettuale e morale è il frutto anche della recente evoluzione - più precisamente, i contesti in cui è avvenuta la sua formazione ed educazione - pilotata in modo che non potesse osservare, capire einteriorizzare le ragioni e i fatti grazie ai quali ha libertà e diritto di parola.
Insomma, ciò di cui dispone, in termini umani e civili, è semplicemente ciò che è stato costretto ad osservare, tra le quinte della società di massa e del mercato dei consumi parossistici: stereotipi e oggetti, attraverso i quali ottenere la promessa realizzazione. Così i meccanismi ereditari dell’odio si consolidano per mezzo dell’invidia, che è il fallimento e la degenerazione dell’anelito all’uguaglianza e alla giustizia.
Ma non è tipo, il nostro odiatore seriale, da scendere in piazza (lo fa di rado, in maniera da non essere riconoscibile come individuo ma solo come banda), da mettere la faccia in grandi e piccole manifestazioni, da sorreggere a fronte alta striscioni di protesta nei cortei. Del resto, come abbiamo visto, non ha ideali e fa molta fatica anche solo a comprendere cosa siano. Ha solo uno scopo: contrapporsi, vendicarsi, azzannare e fuggire.
L’invidioso, rancoroso odiatore seriale si esprime dunque in contesti protetti.
E migliora l’efficacia dei suoi veleni quando ispirato dalla tracotanza e dalle manifestazioni di odio espresse dai capi sociali e politici che, proprio in forza di quelle, mantengono il consenso e la posizione dominante.
Replica i mantra con cui è stata aizzata la sua attenzione, con cui è stata lusingata la sua benevolenza. Siccome sa scrivere, leggere ed usare quel tanto che basta della tecnologia, è in grado di adattare l’odio atavico ai moderni rancori. Se poi l’oggetto delle sue attenzioni è una donna, l’odiatore seriale – maschio o femmina che sia – all’odio aggiunge il gusto osceno della persecuzione sessista.
E così gli riesce una moderata espansione nello spazio e nel tempo, il che sarebbe irrilevante se non avesse il modo di interagire con altri odiatori seriali come lui.
Purtroppo ce l’ha. Va a finire che diventano una massa critica, che ha pochi contenuti ma produce tanto rumore.
Produce anche azioni, spregevoli sempre: la pratica della delazione, spesso senza nemmeno un guadagno tangibile, è una di queste. Nei tempi del Covid-19 , la delazione si è malcelata in una supposta pratica di civile vigilanza a tutela della collettività e contro i pericolosi portatori del virus. Ma la denuncia della donna quale strega, dell’eretico, del concittadino ebreo, sloveno o partigiano, del profugo con le piaghe sui piedi che dorme in un parco pubblico, avevano e hanno la stessa identica matrice genetica, quella dell’odiatore seriale.
Cercare di spiegare la tragica pochezza o la falsità dei contenuti con cui, al sicuro sul web o nel capannello al bar Sport, di volta in volta l’odiatore seriale si scaglia contro questo o quello, è inutile: perché non conosce la dialettica, a lui basta sentire il proprio gridare, sentire in bocca il sapore della brutalità, compiacersi dell’eco delle urla simili alle sue.
Quello che invece funziona con gli odiatori seriali è alimentarne la cacofonia, guidarla con l’accortezza del direttore d’orchestra e approfittarne per trarne consenso. Politico? Certo, la più facile conquista del potere passa di lì.
Allora, oltre a diffondere la consapevolezza del rischio immane del cosiddetto hate speech (e delle sue conseguenze pesantissime in ogni aspetto della vita collettiva), oltre ad educare e promuovere stili e qualità di vita “non ostili”, proviamo anche ad innalzare mura di silenzio attorno all’odiatore seriale. Strepiterà per un po’, ma poi non avendo reazioni che lo alimentano e spettatori alle sue esibizioni, poco per volta si zittirà.
La mia ovviamente è una speranza, se non funzionasse nemmeno questo, proprio non riesco ad immaginare nient’altro.
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