Questo non è un post. E' un racconto. Dalle memorie di una meravigliosa signora che non c'è più.
di Martina Luciani
Tereza, o meglio Rezi,
avrà avuto allora si e no otto anni: già dolore e guerra avevano spezzato tanti
incantesimi del suo cuore, e tuttavia lei continuava generosamente ad inondare
il mondo con il gioioso candore e l’incontenibile entusiasmo con i quali si manifestava
l’eccezionale qualità della sua energia vitale.
E
che solo le impietose sorti della sua lunghissima vita riuscirono, seppure solo
in piccolissima parte, ad affievolire, come quando il fuoco vigoroso senza
ossigeno si immalinconisce in una fiammella pensierosa. Oscurandosi di blu e
viola.
Nello stesso modo, innumerevoli decenni dopo, gli occhi di Tereza a volte si
oscuravano di rimpianto per la perduta emozione infantile del vivere ogni attimo in prossimità di qualcosa
di meraviglioso e perfetto che sta per accadere. Per esserci donato: e così sempre
quel suo rimpianto aveva un che di tenerezza, un sorriso di gratitudine per
tutti i ricordi tanto belli e cari che nessuno poteva portarle via.
Ma
alle volte diventava rabbia tagliente, soprattutto quando lei doveva fare i conti
non solo con le asprezze del proprio destino ma anche con la slealtà e l’ingiustizia subite da altri: che le vittime fossero
i vicini di casa o i contadini di una risaia cinese, per lei era uguale.
I
maledetti ce la rubano, la bellezza della vita - diceva
agitando le grandi e forti mani e
diventando roca da tant’era emozionata - ce la strappano via, proprio a noi che
non chiederemmo null’altro se non cantare come quel merlo là fuori,
sull’albero, le lodi al Creato e al suo
Creatore.
Si sentiva costretta a dubitare che il mitico mondo della sua infanzia fosse il
delirio di una vecchia zitella: e questo produceva smarrimento, agitazione,
reale sofferenza fisica.
Quando
la ricordo infuriarsi così, magari dopo aver sentito le solite nefandezze alla
radio, che lei con brevi tocchi ai pomelli della sintonia pilotava tra un
notiziario e l’altro, aveva già ottant’anni suonati ed una forza inusitata per
la sua veneranda età. Ma senza quella forza non avrebbe potuto attraversare il
Novecento con tanta lucidità e allegria, con un cognome sloveno e importante,
tre o quattro lingue parlate perfettamente, profuganze e miseria, un cognato
siciliano, un fratello partigiano, una sorellastra in Francia, un fratello a Torino e un altro sindaco del paese natale, parenti sparsi in mezza Europa.
L’inizio
della guerra – che poi chiamarono Prima e Grande –minacciava grandemente il suo
paese natio, in una conca aperta e soleggiata lungo la valle dell’Isonzo sorvegliata
da un candido e vasto massiccio calcareo, il Kanin: parlando con me, di solito diceva
Plezzo, in italiano, ma a volte Bovec in sloveno, Plez in friulano e anche
Flitsh in tedesco, sempre quello è.
Salvare almeno la vita e quel che si poteva stipare in una valigia: molti,
moltissimi se ne erano fuggiti per tempo, finendo nei campi profughi
organizzati dall’amministrazione austroungarica. Altri avevano resistito finchè
le bombe degli uni e degli altri ( ma che importanza aveva mai di chi fossero
le granate che riducevano in sassi la tua casa? ) resero insostenibile il ritmo
della lugubre orchestra che mai zittiva, mentre il fronte sanguinoso avanzava ed arretrava con
crudele capriccio, incurante di dividere in due la piazza, il cimitero, le case
stesse del paese.
Io non so perché il padre di Rezi, Leopold, non avesse abbandonato il paese con
i figli; la mamma era morta nel 1913, forse a lui che tanto l’aveva amata
premeva ormai solo mettere tutti i bambini al
sicuro, a casa di conoscenti che abitavano lontano, in una zona lontana dalla guerra.
Rezi ricordava solo che, per inappellabile decisione paterna, venne organizzata
la partenza, con i suoi tre fratelli e con sua sorella.
Qualcuno del paese era stato incaricato di badare a loro nel viaggio ma, nella
concitazione e nel succedersi di mille inconvenienti, tra colonne militari e
ondate di profughi in movimento, Rezi perse di vista i fratelli e si ritrovò
sola, affidata al buon cuore di chi le disse “vieni con noi”.
Andava quel gruppo che l’aveva accolta in un villaggio in Carniola, lontano tanto
da Plezzo quanto dal paese dove erano diretti i suoi fratelli: le spiegarono
che a Stična c’era un piccolo campo per accogliere i poveracci che non sapevano
dove mettersi in salvo, e che là qualcuno l’avrebbe aiutata. Così seguì la
marea, mentre al gruppo man mano si accodavano altri profughi, e il loro cammino
risuonava di parole desolate in sloveno, in italiano, in friulano, in dialetti
dal timbro tedesco….