Riflessioni, amarezze, e un po' di link per non dimenticare.
La foto accanto è stata scattata nel 2003 da Carlo Tavagnutti, durante una esplorazione alla ricerca del punto dove Paternolli volò via dalle rocce e dalla vita. Casualmente ripropone l'identica prospettiva della fotografia scattata da Ervino Pocar, il 19 agosto 1923, proprio nel corso della sventurata ascensione al Poldanovec.
di Martina Luciani
" Sai, se osservi le foto del funerale di Paternolli, vedi che c'era la città intera. Una città che l'ha dimenticato alla svelta, che oggi non sa quasi più chi fosse, che non ha memoria dei suoi figli migliori e dà voce e lustro a personaggi di nessun valore" : così mi dice poco fa Marko Mosetti, direttore di Alpinismo Goriziano.
Ci siamo sentiti per ragionare sul come ricordare Paternolli nel novantacinquesimo anniversario della sua morte, e rinsaldare un tessuto di testimonianze di quella Gorizia che a forza di celarsi dietro sospetti e mistificazioni non si ritrova più.
Proviamo semplicemente a raccogliere i link della grande quantità di testi che Alpinismo Goriziano ha raccolto nel corso degli anni. Molto altro materiale è disponibile, su Internet e in libreria. Persino a fumetti, nel libro di Miriam Blasich, che si è ispirata alla biografia di Nino Paternolli di Luca Matteusich.Ma occasioni di riflessione ce ne sono ancora all'infinito.
2003. La Comunità locale di Tribussa superiore, Krajevna Skupnost Gorenja Trebuøa, realizza la sistemazione del sentiero per raggiungere la lapide in memoria di Paternolli, posta dal CAI Gorizia nel 1924, e divenuta pressochè irragiungibile nel corso del tempo. Lo fa perchè qualcuno ispirò e volle questo recupero così denso di significati: lo storico di Idrija Jurij Bavdaæ.
Il numero 3 di Alpinismo Goriziano di quell'anno dedica ampio spazio all'iniziativa e all'eventi inaugurale. Numerosi i testi, tra i quali quello del prof.Sergio Tavano: Nino morì come Carlo, di slancio. Con la precisazione: Con lui Gorizia cadde nel vuoto. Ma vanno letti, credete, anche gli altri interventi che rendono quel numero della rivista una vera e propria pietra miliare.
Imperdibile anche quanto Tavano scrive dieci anni dopo, sul numero 3/2013 di Alpinismo Goriziano: Nino Paternolli e il tramonto di Gorizia.Marko Mosetti, dedica Perdute tracce al racconto della ricerca del Canalone Hudournik ( rinominato, grazie agli stessi valligiani, Paternolli), dalla val Tribussa su verso il Poldanovec, e all'emozionante incontro, in un "tempo sospeso" perchè anello di congiunzione tra passato e presente, con il vecchio che valligiano che ricordava ancora i due signori di Gorizia, Nino Paternolli e il suo compagno, Ervino Pocar; e quest'ultimo sconvolto che riappariva chiedendo aiuto la sera dell'incidente, il recupero del corpo del caduto, ritrovato su per la montagna, lungo un cammino improbabile, pericoloso, intriso anche oggi di inquietudine e minaccia.
Sergio Tavano, nel 2002, sempre sulle pagine della rivista Alpinismo Goriziano, in un saggio intitolato Non soltanto montagne mute, riportando le memorie di Ervino Pocar (che inizialmente furono pubblicate, nei primi anni 20, sul bollettino sezionale del Cai di Gorizia) consente (almeno per quelli come me) una fondamentale interpretazione di chi fosse Paternolli.
Nino era uno capace di cogliere,o forse accogliere, in cammino tra le montagne e contemplando l'immensità del cielo sopra la Val Trenta, la forza della bellezza che, in certi luoghi e in certi indescrivibili attimi, ci consente la percezione abbagliante della nascita del mito. Ma la disse, questa scoperta universale, all'orecchio dell'amico, sussurrando. Il sussurro è arte espressiva ormai inarrivabile. Ed in fondo è rifiuto della Rettorica e possesso assoluto dell'attimo presente e della Persuasione.
Quando penso a Paternolli, e al suo mondo, mi ritrovo sempre una irrisolvibile malinconia: la Grande Guerra è stata così grande perché non è finita in una data , è proseguita nel tempo, ben oltre i trattati di pace, un'onda di infinito dolore e raccapriccio si è distesa sul suolo, è penetrata in ogni falda, e attraverso le radici nelle chiome degli alberi e in ogni ciliegia, mela, albicocca, susina e chicco d'uva per chilometri in lungo e in largo in queste terre.
La maledizione non è un fatto letterario o esoterico, ha una sua recondita biologia.
E la morte biologica di Paternolli mi pare un fatto simbolico cui diamo un contesto ma non una spiegazione: penso sia stato uno dei momenti definitivi del progressivo affievolirsi dell' energia ( culturale, morale, civile) di questa città, causata dell’irreparabile rottura dei filamenti del DNA dell’anima collettiva.
Mi ha colpito enormemente un dettaglio della storia locale: quando l’amministrazione italiana si installò materialmente a Gorizia, dopo averla conquistata militarmente, non raccolse i registri dell’anagrafe imperial – regia per ricopiarli in quelli con l'intestazione Regno d'Italia. Che sarebbe stato logico e più semplice: cari cittadini, volenti o nolenti, finalmente redenti anche se non irredentisti, adesso vi accolgo e vi stringo con amore tutti quanti nel mio grande abbraccio di madre patria…invece no!
Sotto la sabauda corona e in nome di quella venne svolto un lavoro certosino di verifica, nome per nome, cognome per cognome, ogni pagina dei registri fu filtrata e classificata secondo criteri "italianizzanti": come può una città, antica e ricca di storia ma devastata e annichilita, accettare intimamente un fatto del genere?
Una città che parlava molte lingue attraverso i suoni anagrafici dei suoi abitanti, con il controcanto dei nomi dei luoghi a suggellare i fatti, grandi e privatissimi, accaduti tra le persone e in quei luoghi; così che al centro di ogni piazza, in fondo ad ogni viuzza e ad ogni cortile, tra gli schizzi di ogni fontana si rinnovava un incredibile e potente concerto di racconti e memorie, ritmate con gli schiocchi di k, le severità delle g, i funambolismi delle consonanti ammucchiate e gli sbaciucchiamenti dei ch.
Poi cominciò una recita, con i vecchi cognomi trasformati in buffi nomi d’arte, e a forza di far le comparse tanti si confusero su se stessi, e smisero di sentire come prima, io credo persino di soffrire e amare come prima, e con nuove scenografie e colonne sonore andarono avanti nel nuovo mondo e ci si perdettero. A volte con fiducia, a volte senza capire, a volte con le labbra suggellate perché è meglio non dire.
In questo silenzio sono dilagate ( in ordine crescente di gravità delle conseguenze sociali e democratiche) la rozzezza, la grettezza, l'attitudine all'insignificanza, il digiuno culturale ( inclusa la cultura politica), la cui apoteosi è manifesta oggi nelle classi dirigenti ( del denaro e della politica ) che Tito Maniacco nel suo eccezionale I senza storia. Il Friuli dalle origini a noi. definisce semplicemente "spaventose".
19 agosto 2018. " ...famoso canalone Hudournik. Dopo pochi metri il luogo si presenta in tutta la sua cupezza,
profondo, senza sole, umido nonostante il tepore di inizio autunno..." E' un passaggio del reportage di Elio Candussi ( con cui mi scuso della dimenticanza)sulla difficoltosa e faticosa esplorazione del canalone, fino alla targa ( "Ora capisco perchè Nino è scivolato in questo angustocanalino") pubblicato nel primo numero di Alpinismo Goriziano del 2018.
Conoscendo l'uomo non credo che la foto di Carlo Tavagnutti sia "casuale". Mi piace anche ricordare che il "Diario" di Ervino Pocar con la sciagurata vicenda è stato pubblicato nella monografia "UN SECOLO DI ALPINISMO GORIZIANO" 1983 /cai gorizia (in montagna con Paternolli, Avnzini, Pocar)
RispondiEliminaSegnalo il reportage pubblicato sul n. 1/2018 di Alpinismo Goriziano. Credo di esser stato uno degli ultimi visitatori di quel cupo sito.
RispondiEliminaElio Candussi. Grazie e mi scusi. Ho integrato l'articolo. Forse avrei anche dovuto scrivere: non andateci se non siete alpinisti esperti. Ma spero che si capisca. Martina Luciani
RispondiEliminaSplendido articolo. Grazie
RispondiEliminaOttimo articolo, complimenti.
RispondiEliminaNon ci rimane che tenere duro almeno nell'oggi - e coltivare il meglio del passato -, opponendoci ai fanfaroni ai quali la città dispensa applausi, quelli che giustamente Mosetti definisce persone senza valore.