lunedì 5 ottobre 2020

La città dei pali e dei lampioni_1: l'aiuola di pali

La complessità culturale di Gorizia si manifesta in molti modi.  Di tantissimi andiamo orgogliosi. Di altri meno, perché rappresentano l’incapacità del presente di essere all’altezza del passato. Una delle inquietudini, di cui faremmo volentieri a meno, riguarda  il settore dei pali, dalla segnaletica ai  pali della luce.

di Martina Luciani

La capacità interagente del referente dei pubblici lavori e dell’arredatore urbano goriziani sfiora il sublime. Ne è esempio quella che io chiamo aiuola di pali, all’incrocio tra via Canova  ( si, proprio quello di Cupido e Psiche, opera tra le più note del maestro del Neoclassicismo,  e chi percorre la via pensandoci,  proverà più forte emozione di fronte all’installazione accanto alla quale deve fermarsi per svoltare sul Corso).

L’aiuola di pali è frutto di un progetto audace. Perché esalta, nella simbolica delimitazione sul suolo, che corrisponde (circa) ad un quarto di circonferenza ( figura geometrica di enorme impatto simbolico)  le esigenze tecniche della gestione degli spazi e delle attività di una comunità che scende per strada e va, a piedi e in macchina ( in bici è meglio di no, qui da noi).

Questa aiuola è un po’ il documento strategico dell’arredo urbano della città, il capo del fil rouge lungo il quale possiamo scorrere e incontrare tutti i pali, sostegni e lampioni che con uno spirito creativo ben più che eclettico rendono effervescente il contesto cittadino. Esprimendo la costante attenzione per la valorizzazione dell’immagine da offrire ai visitatori ( bisogna educare alle espressioni d’avanguardia dell’arte contemporanea, non è che te lo insegnano al catechismo da piccolo) e  per gli effetti benefici del paesaggio urbano sugli abitanti: perché, si sa,  I cittadini stimolati positivamente dalle caratteristiche dell’habitat urbano sono più sereni, vivono meglio.

Non è tutto qua, quel che traspare osservando l’installazione. Mi permetto di suggerire: nelle Sette Lampade dell’Architettura, John Ruskin afferma che “una perfetta rifinitura appartiene a un’arte perfetta, una rifinitura in evoluzione corrisponde a un’arte in evoluzione”: e questo è nello spirito della nostra città, evolvere, sempre, inseguendo luminose visioni.

 Ma dice anche che “meglio il più grezzo dei lavori che racconti una storia o commemori un fatto, del più raffinato che sia privo di significato”, e questo corrisponde al nostro bisogno di memoria e di verità, di consolidamento e condivisione dell’identità collettiva.  Avvisa Ruskin: la nostra opera deve indurre i nostri discendenti a ringraziarci. Proposito che traspare in ogni angolo della città, nel centro storico come nelle periferie.

Ecco dunque il lampione verde salvia, esemplare di quelli che amiamo tanto, autenticamente vintage (quando sono accesi danno al Corso Italia la sua romantica e nostalgica atmosfera ma li sostituiranno perché l’alone di luce delle sfere di vetro è fuorilegge e noi al rispetto delle norme teniamo in massimo grado) che alla base, conficcati nel terreno,  ha alcuni sostegni di legno, un eloquente abbinamento di materiale naturale e semplice con un manufatto industriale.
Accanto, su di un sostegno grigio antracite ( grigio e verde, non si sbaglia mai)  il segnale di fine del percorso pedonale e, giustamente, dall’altro verso il segnale di inizio percorso pedonale; un unico palo, sempre grigio, per il duplice segnale di stop, da lato di via Canova, e di divieto di accesso ( visto che si tratta di un senso unico); un tombino di solida fattura;  3 tubi grigi che sbucano potenti dal suolo, dei quali uno graziosamente inclinato, per rompere la simmetria verticale; due tubi arancione, accostamento cromatico che vivacizza un insieme altrimenti forse troppo sobrio; un tubo incappucciato con un materiale plastico azzurro, agganciato con un cavetto metallico ( rigorosamente vintage) ad un altro misterioso tubo, con una sorta di doppio sfiato sulla sommità e adeguatamente attaccato dalla ruggine, che fa tanto stile industrial chic. Questa parte dell’installazione è forse quella più suggestiva, perché certamente si presta alle più diverse interpretazioni: il collegamento con le profondità ctonie è interrotto per impedire che qualcosa esca o per far sì che nulla scivoli nell’oscurità del sottosuolo?

Il terreno è volutamente lasciato allo stato brado, scelta anche questa dettata dall’esigenza di mettere sempre in relazione il tecnologico con il naturale, un ottimo mix ciottoloso e sabbioso, perfetto per l’attecchimento di erbe spontanee tra le più tenaci.

Che dire, manca solo una cosa: una targa che citi il titolo dell’opera. Ma penso sia meglio indire un concorso di idee, per scegliere le parole e il concetto.



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