I carri armati sono letali anche per l’ecosistema (lasvolta.it) |
Alcune osservazioni attorno all'enorme pressione esercitata sull'ambiente dai conflitti bellici.Del diritto internazionale in materia, ce ne facciamo qualcosa o no?
di Martina Luciani
Mentre la parola guerra è sempre più familiare, nella
Giornata della Terra, lasciando ad altri le riflessioni tragiche sulle
condizioni del pianeta Terra, ho deciso
di sottolineare l’imbecillità, la follia e l’incoerenza dei governanti e dei
relativi legislatori e plenipotenziari che producono norme internazionali a tutela
dell’ambiente nei conflitti bellici e che poi guerreggiano amenamente producendo
il rischio o l’effettiva degradazione, spesso irreparabile, dell’ambiente.
Scelta dettata dal fatto che normalmente sfugge del tutto l’enorme pressione esercitata sull’ambiente e
sulle ipotesi di sopravvivenza dell’umanità
dalla guerra, dai preparativi di guerra, dall’apparato industriale che
sostiene la guerra, dagli esiti che si manifestano a distanza di molto tempo
sulla natura oltrechè sulla vita umana.
Mi preme ricordare innanzitutto che lo
Statuto di Roma, istitutivo della Corte Penale Internazionale, nel perseguire i crimini di guerra , all’art.8
prevede la fattispecie dell’attacco deliberatamente lanciato nella consapevolezza
che questo avrà come conseguenza […] danni diffusi, duraturi e gravi
all’ambiente naturale, che siano manifestamente eccessivi rispetto all’insieme
dei concreti e diretti vantaggi militari previsti”.
Probabilmente si tratta della prima norma incriminatoria che considera il danno
ambientale in maniera autonoma rispetto la considerazione degli effetti sulle
persone. Un’impostazione dunque
ecocentrica, che la Corte ha sviluppato nel documento programmatico intitolato Policy
paper on case selection and prioritisation, del 15 settembre 2016, in cui ha precisato l’impegno a perseguire con
particolare attenzione tutti i crimini
previsti nello Statuto di Roma che siano commessi per mezzo, o che determinino quale conseguenza, la
distruzione dell'ambiente, lo sfruttamento illegale di risorse naturali o l'espropriazione
illegale di terreni. L'impatto dei reati può essere valutato alla luce, tra
l'altro, della maggiore vulnerabilità delle vittime, del terrore instillato
successivamente o del danno sociale, economico e ambientale inflitto alle
comunità colpite.
Inoltre l’Istituzione, considerando che lo Statuto prevede nel Preambolo il
coordinamento delle attività della Corte, in relazione a casi fuori dalla sua
competenza, con le giurisdizioni nazionali all’interno di un sistema complementare
di giustizia penale, ha inoltre resa esplicita la propria intenzione di cooperare
e fornire assistenza agli Stati, su richiesta, rispetto a comportamenti che
costituiscono un reato grave ai sensi della legislazione nazionale, come lo
sfruttamento illegale delle risorse naturali, il traffico di armi, tratta di
esseri umani, terrorismo, crimini finanziari, accaparramento di terre (land
grabbing) o distruzione dell'ambiente.
Per questo, l’Articolo 8(2)(b)(iv) è considerato il primo crimine di guerra di
carattere ecocentrico – specialmente rispetto alle precedenti disposizioni
dell’Articolo 35 del Protocollo I delle Convenzioni di Ginevra e dell’Articolo
I della Convenzione ENMOD, da cui esso trae origine.
La Corte penale
internazionale, nel documento programmatico intitolato Policy paper on case
selection and prioritisation, del 15 settembre 2016, ha precisato l’impegno a
perseguire con particolare attenzione i
crimini previsti nello Statuto di Roma che siano commessi per mezzo, o che determinino quale conseguenza, la
distruzione dell'ambiente, lo sfruttamento illegale di risorse naturali o l'espropriazione
illegale di terreni.
L’Istituzione, considerando che lo Statuto prevede nel Preambolo il
coordinamento delle attività della Corte, in relazione a casi fuori dalla sua
competenza, con le giurisdizioni nazionali all’interno di un sistema complementare
di giustizia penale, ha inoltre resa esplicita la propria intenzione di cooperare
e fornire assistenza agli Stati, su richiesta, rispetto a comportamenti che
costituiscono un reato grave ai sensi della legislazione nazionale, come lo
sfruttamento illegale delle risorse naturali, il traffico di armi, tratta di
esseri umani, terrorismo, crimini finanziari, accaparramento di terre (land
grabbing) o distruzione dell'ambiente.
L’altra architrave della protezione ambientale nei conflitti bellici
sta nel primo Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra, adottato nel
1977: l’art. 35, tra le regole fondamentali, stabilisce il divieto di impiegare mezzi e
metodi di combattimento in grado di causare, o da cui ci si possa aspettare,
danni gravi, estesi e durevoli all’ambiente naturale.
All’art. 55, esplicitamente dedicato alla
Protezione dell’ambiente naturale, si fa riferimento a danni ambientali che compromettono la salute o la sopravvivenza
della popolazione e si vietano attacchi contro l’ambiente naturale a titolo di
rappresaglia. Non granchè, in effetti, visto che, oltre a doversi intendere gli
effetti in maniera cumulativa, per
estensione del danneggiamento si intendono centinaia di chilometri quadrati,
per durevoli si intende che durino diversi decenni e per gravi si guarda ad
effetti che determinino pregiudizi importanti per la vita umana, per le risorse
economiche e naturali dei territori coinvolti.
Contemporanea al primo Protocollo è la Convenzione ENMOD sulla proibizione dell’impiego di tecniche di
modifica ambientale per scopi militari ( con minor numero di ratifiche rispetto
al primo Protocollo), dalle cui intese interpretative si ricava una previsione
maggiormente restrittive del danno ambientale.: e cioè il danno durevole va
osservato nell’arco di pochi mesi, e i tre requisiti - grave, esteso e durevole – vanno osservati
in maniera non cumulativa. Nelle intese
interpretative relative alla Convenzione si esclude purtroppo che l’attribuzione
di significato ai tre termini vincoli le parti e possa considerarsi estesa nella
formulazione di altri trattati internazionali. Aggiungo anche che a Rio de
Janeiro, nel 1992, si è ritenuto di inserire nella Dichiarazione su ambiente e
sviluppo sostenibile il principio 24: La
guerra esercita un'azione intrinsecamente distruttiva sullo sviluppo
sostenibile. Gli Stati rispetteranno il diritto internazionale relativo alla
protezione dell'ambiente in tempi di conflitto armato e coopereranno al suo
progressivo sviluppo secondo necessità. Chiarendo, al principio 25, che pace e
protezione dell’ambiente sono interdipendenti e indivisibili.
E’ interessante almeno quanto sconfortante leggere nella Gazzetta Ufficiale del
25 maggio 1986 la traduzione ufficiale delle dichiarazioni interpretative
depositate dal nostro governo al momento della ratifica del primo Protocollo
addizionale (quasi dieci anni, ci son voluti, per questa ratifica). L’Italia
considera le norme del primo Protocollo, incluse dunque anche quelle relative
all’ambiente naturale, con riferimento alle sole armi convenzionali, escludendo
perciò dal divieto di arrecare danni all’ambiente le armi nucleari, chimiche e
batteriologiche.
Ci si chiede come oggi, dopo la modifica dell’art.9 e dell’art. 41 della
Costituzione italiana ( molta enfasi e poca sostanza, a parere di chi scrive,
ma si sa qualcosa è meglio di niente) si possa discutere sull’applicazione dell’art.35
e 55 del primo Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra: ora che
abbiamo dato il massimo rango possibile nel nostro ordinamento ai principi di
tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, con l’aggiunta
della precisazione “anche nell’interesse delle future generazioni”, come si
configura il ruolo italiano nella discussione internazionale sulla tutela dell’ambiente
nei conflitti armati nel caso di sistematiche violazioni delle norme del primo
Protocollo, e in particolare degli articoli 35 e 55?
Ringrazio mia figlia Lodovica Gaia Stasi dalla cui tesi di laurea in
Criminologia su “I reati contro l’ambiente
come categoria della criminalità non convenzionale” ho attinto, dalle pagine sulla
corte penale internazionale e le prospettive di penalizzazione degli ecocrimini
e dell’ecocidio, i riferimenti dei trattati internazionali citati.
Infine dedico queste sommarie note a
Vega Abrahamsberg, studentessa di Scienze internazionali e diplomatiche, che ha
in progetto di scrivere la sua tesi di laurea su conflitti armati e
salvaguardia dell’ambiente: un compito non facile che le auguro di affrontare
con determinazione e con quella sensibilità al tema ambientale che già so esser
profondamente sua.
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