L’8 settembre, al Kulturni Dom di via Brass a Gorizia, verrà
presentato il libro di Anna di Gianantonio e Gianni Peteani: 1945 Ich bin
Schwanger ( sono incinta), edito dall’ Istituto regionale per la storia della
Resistenza e dell’Età contemporanea.
Il volume traccia la vicenda dell’antifascista e staffetta partigiana triestina Nerina Uršič,
deportata al campo di nel gennaio del 1945 al campo di Ravensbrϋch, in
Germania. Rientrata fortunosamente a Trieste 5 mesi dopo, ad agosto nacque la
sua bambina. Sonia. La protagonista vera, perché senza di lei questo libro non sarebbe quello che è:
enorme.
di Martina Luciani
Su Sonia, fin dalla nascita, si concentrano i traumi materni, le nefandezze dell’intero periodo storico in cui avvenne la prigionia di Nerina, le ambiguità e criticità del periodo successivo e dell’appartenere alla minoranza slovena, il peso dell’essere figlia di una donna tanto profondamente segnata dalla vita, lo sforzo immane della madre di reinserirsi in una qualche normalità e di essere una mamma qualunque, il conflitto tra amarsi e respingersi, tra cercarsi e sfuggirsi, tra scriversi parole affettuose ma non riuscire a parlarsi di persona. Tutto ciò si insinuò e condizionò quello che fu talvolta un tenero legame talvolta un cilicio che univa, anche quando pareva dividerle, madre e figlia. Prolungandosi anche alla generazione successiva.
E’ un groviglio dal quale è impossibile uscire senza lacerazioni: forse solo una catarsi come quella che gli antichi Greci prescrivevano nelle loro tragedie può squarciare le troppe prospettive che si intersecano, si esca dal labirinto e far si possa respirare profondamente di fronte ad un orizzonte nitido, anche se non pietoso. Chissà che questo libro, e le lunghe interviste grazie al quale sono stati ricomposti eventi e sentimenti, non ottenga questo scopo: bisogna leggerlo, però, e tenerlo nella cassetta degli attrezzi del vivere quotidiano perché “fascismo e nazismo non sono periodi storici consegnati al passato”, resi muti e innocui per l’eternità.
La mia personale chiave di lettura sta nelle prime pagine, là dove Anna Di Gianantonio scrive: …le donne hanno subito offese come donne, come madri, come figlie, ogni singolo aspetto del femminile è stato violato…il corpo delle donne è il terreno su cui si svolge una battaglia cruenta...
Quest’opera è stata scritta lungo i due versanti dell’enorme montagna attorno alla quale ci inerpichiamo per tentare di arrivare in vetta: quello maschile e quello femminile. Anna di Gianantonio e Gianni Peteani: e si percepisce chiaramente la diversa sensibilità della scrittura.
Ma attorno si svolge una oscura e macabra vicenda, così profondamente intrisa dal male che chi ne scampa non sarà mai più come prima. Per Nerina, e tantissime sue compagne, è come restare in un limbo, dove i fatti, le relazioni, le reazioni, i sentimenti avvengono e si sviluppano marchiati a fuoco: il marchio dell’abisso maledetto sui cui si è stati sospinti fin quasi a precipitarvi, dei molteplici abissi maledetti apertisi sul suolo dei campi di concentramento e di sterminio nazifascisti.
I personaggi femminili di questa storia hanno un’intensità omerica, il loro sforzo è quello di misurarsi con il Male rappresentato da esseri umani, alcuni assurti al rango di dei onnipotenti e crudeli, e con il Fato che si substanzia in sventurati eventi e coincidenze, che continua a esercitare ulteriori influenze negative.
La fatica di Nerina è di cercare la personale catarsi, che a volte passa persino attraverso la vita dei figli, e grazie a quella sottrarsi al dolore, liberarsi finalmente. Perché chi è tornato a casa dai campi di sterminio, chi è sopravvissuto non è ritornato libero. Ha dovuto poco per volta riconquistare oltre alla normalità anche la libertà, allentare i lacci e i nodi dei ricordi, cercare frammenti di serenità, e tacere, che il silenzio su quanto subito e sofferto è forse l’unico modo per sopravvivere, il breve alito delle parole di un racconto diventa un vento turbinoso e può far crollare il castello di carte che si cerca di costruire.
Anche perché nel dopoguerra i racconti delle donne sopravvissute avevano una risonanza particolarmente sgradevole, rimbalzavano contro un altissimo muro composto da infinite orecchie maschili: quel muro era (in parte esiste ancora, ahinoi) la barriera socioculturale che attribuiva alle donne vittime una parte della responsabilità della loro tragica esperienza. Se non si fossero impicciate di politica, di antifascismo e di Resistenza, e non avessero eluso i loro doveri domestici e familiari, non sarebbero state deportate, magari già incinte come Nerina, o assieme ai bambini, come accaduto a molte, rischiando oltre alla propria morte anche quella dei nascituri e dei piccoli, scomparsi anche loro nel girone infernale. Mi sono chiesta se questo atteggiamento di velata condanna, ripetutamente segnalato dalle testimonianze di donne deportate e sopravvissute, così simile agli spregevoli distinguo sulla “vis grata puellae” nei casi giudiziari di stupro, non sia l’unica reazione possibile nella mente maschile collettiva per aggirare la tragica constatazione che l’uomo non solo si manifesta come lupo feroce verso gli altri lupi, ma persino verso le femmine del branco: senza le quali il branco si estingue.
Insomma, oltre alle parole, alla necessità delle parole e della testimonianza, alla catarsi attraverso le parole, il silenzio ha un ruolo importantissimo in questo libro.
Vorrei ricordare la testimonianza di Gianni Peteani, figlio di Ondina, reduce di Auschwitz oltre che di Ravensbrϋch. Nerina si recava a trovare Ondina, ammalata, e si sedevano al tavolo della cucina. Entrambe avanti negli anni, non parlavano e certamente non perché non avessero nulla di dirsi. Nerina allungava una mano e la posava su quella di Ondina, sul piano del tavolo, e restavano così, in silenzio.
Ma lo stesso Peteani riconosce che il silenzio, usato per proteggersi e proteggere i propri cari, non impedisce la “trasmigrazione del dolore”, una sofferenza dell’anima che si propaga peggio di un virus, per osmosi, tra i reduci dalla deportazione ed i loro familiari. Prova ne è che Sonia piccolissima la percepisce e in qualche modo cerca di fronteggiarla e darle un significato.
Un gesto di Sonia, infine. Lei che tenta una carezza a Nerina morente e la madre che si sottrae bruscamente. Come quando Ulisse tentò tre volte di abbracciare sua madre incontrata nell’Ade, e ogni volta le braccia si strinsero nel vuoto. Io non so come si sopravviva, ad un gesto come questo, se non perché da una vita temprati alla resistenza contro l’incomprensibile. Ma forse invece Sonia comprese, quel gesto equivaleva a ciò che Anticlea disse ad Ulisse piangente: tu cerca al più presto la luce. Evidentemente, in aggiunta, era stato profetico il medico del lager, al quale Nerina, durante un umiliante controllo delle prigioniere, aveva detto “Ich bin schwanger”: le aveva risposto di non preoccuparsi, che avrebbe avuto un figlio d’oro. Metallo solare, delle migliori qualità energetiche e spirituali. E proprio così deve essere andata.
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