Pubblica Amministrazione: uno Stato nello Stato. L'emozione di un provvedimento che usa la parola "inesorabilmente"
di Martina Luciani
La premessa: una cittadina (il genere è rilevante nelle conclusioni del discorso) e dipendente di un ente locale ha una interlocuzione formale con la pubblica amministrazione di appartenenza. Non servono molti dettagli, basta sapere che la questione è grave, riguarda intrinseche qualità della vita privata e delle relative proiezioni future.
La cittadina e dipendente avvia l’interlocuzione in maniera formale, richiedendo l’annullamento in autotutela di un provvedimento in quanto sostenuto da motivazioni insufficienti , spiegando perché e percome.
(L'obbligo di motivazione non è un orpello retorico. Lo prevede la norma sul
procedimento amministrativo, l’art. 3 della legge 241 del 1990, che dice: Ogni
provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l'organizzazione
amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve
essere motivato… La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le
ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione, in
relazione alle risultanze dell'istruttoria.
Se la motivazione è carente, si salta all’art.21 octies che configura le
ipotesi di annullabilità del provvedimento.)
La pubblica amministrazione, attraverso il direttore di servizio competente per
la questione, che qui, per ovvi motivi, chiamo solo Firmato Digitalmente,
risponde respingendo l’istanza della cittadina dipendente. Tuttavia, con la
famosa espressione “a ogni buon fine” (forse Firmato Digitalmente ha qualcosa
di cui deve innanzitutto convincere se stesso?) la risposta “coglie l’occasione
per dettagliare alcuni specifici aspetti”.
E lo fa, certo, infilando una serie di “confutazioni” che nuovamente, come
nell’atto precedentemente contestato, non rispondono alla domanda “perché” , indicando quale specifica
disposizione di legge sia da applicarsi ad una specifica situazione, così da
consacrarne senza dubbi la categoria, la classificazione legale, chiamatela come volete
Mi spiego meglio, in ossequio al sopra citato concetto “ad ogni buon fine”: quando si
attribuisce alla cittadina dipendente l’appartenenza ad una certa categoria,
bisogna dire in base a quali fatti e quali regole (formatto la
parola in grassetto e sottolineato, perché nell’atto c’è l’utilizzo di questi
stili a rafforzare gli effetti comunicativi di termini peraltro di uso comune).
E per contro, nella
dinamica della confutazione, bisogna dire in base a quali fatti e quali regole
la dipendente non rientra nella categoria o nella condizione cui ella
invece è convinta di appartenere.
Ma bisogna farlo correttamente, in maniera intelligibile, così oltretutto da
consentire alla cittadina e dipendente di esercitare il suo diritto alla difesa,
in fase interlocutoria o giurisdizionale.
Ci sono infatti
palesi travisamenti nell’ analisi e nella classificazione di specifici o
presunti diritti della cittadina dipendente e in aggiunta la manifestazione di completa
ignoranza di certe prassi che intercorrono tra i cittadini lavoratori e l’INPS, oltre
che delle sottigliezze infinite della materia pensionistica.
Ma fin qua, saremmo nell’ambito dell’ordinaria follia causata dall'ipertrofia
della legislazione, tale che, nel sempre più rigoglioso intreccio delle leggi -
così fitto da esser una volta oscura, impenetrabile alla luce dell’intelletto -
soltanto l’estrema specializzazione dell’interprete consente di individuare il
corretto sentiero da percorrere. Un generico Azzeccagarbugli non ce la può fare.
Ecco perché, al fine di attraversare la nera jungla
(come scriverebbe Salgari) e far sì che l’amministrazione adempia al suo
principio fondante ( la legalità, grassetto e sottolineato, su
finalità, poteri e modalità di esercizio del potere) esiste il meccanismo dell’interpello
al Ministero competente, che Firmato Digitalmente, co- protagonista di questa
vicenda, ben si è guardato di attivare, altrimenti sarebbe stato logico farne
buon uso e nel caso confermasse la correttezza dell’operare nei confronti della
cittadina dipendente l’avrebbe definitivamente zittita. Certamente non ne aveva
l’obbligo, ma sarebbe stato da parte un gesto rispetto verso la cittadina
dipendente. Che peraltro ha ritenuto di segnalare la questione all’Ispettorato
della funzione pubblica del Ministero della Pubblica Amministrazione.
Fin qui, a parte gli ovvi reciproci fastidi, la relazione rimane nel solco della
normalità.
Quel che invece manda fuori dai gangheri la cittadina e dipendente è una
parola, un avverbio assolutamente estraneo alle regole della comunicazione di
un ente pubblico. Un’auto attribuzione di ruolo che la pubblica amministrazione
non ha, a meno che non intenda consacrare il ruolo di antagonista di chiunque
sia in una situazione di svantaggio: ovvero i cittadini.
Dirò di più: in quell’avverbio c’è l’atavica tracotanza del patriarcato, che pure è in
agonia ma si ostina a non vederlo; c’è la trasfigurazione di un direttore di
servizio in un implacabile giudice che attua le spietate direttive di una
divinità ctonia.
Arrivo al dunque: “L’ Amministrazione dovrà inesorabilmente far cessare il
rapporto di lavoro…”: INESORABILMENTE. Implacabile, spietato. Lo è anche in un
altro passaggio: la richiesta “ contrasta inesorabilmente con la disciplina…”.
Nuova, esorbitante e non richiesta esibizione muscolare.
Quindi il fatto di averlo usato è emblematico.
Quesito: la cittadina dipendente si sente più colpita perché è una donna, e ha in sé depositati millenni di implacabili e inesorabili oppressioni, discriminazioni e violenze? Possibile! Ognuna di noi è portatrice, più o meno consapevolmente, delle memorie e degli archetipi della sottomissione femminile da parte della società patriarcale.
E comunque, a sostegno della cittadina dipendente e di tutte le componenti dell’immensa Sorellanza, enfatizzo che quando l’esercizio di un qualsiasi potere perde la sua necessaria condizione di essenzialità ( piattaforma dell’imparzialità), assumendo connotati e sfumature personali, qualcosa da psicoanalizzare sicuramente c’è: cosicché questo INESORABILMENTE dice molto, molto di più di quel che significa sulla Treccani.
Ma chi te lo fa fare, egregio Firmato Digitalmente, ad essere inesorabile? Ti è consentito, essere dichiaratamente inesorabile o è una qualità richiesta ai direttori di servizio?

Una donna capace può schiacciare mille imbecillità.
RispondiEliminaInesorabile…inconfutabile…definitivo. Per chi si nutre di dubbi , sono aggettivi che risultano di molto indigesti e che formano la corona della presunta onnipotenza di personaggi di varie fattispecie. Buona fortuna!
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