martedì 16 settembre 2025

Aggressione al giornalista Mervar: così si svilisce un'azione civile a difesa dei diritti umani del popolo palestinese



Opinione non richiesta:
riflessione sui danni collaterali dell'aggressione, a Ronchi dei Legionari, pochi giorni fa, subita dal giornalista RAI Maurizio Mervar nel corso della protesta davanti all'azienda che produce droni militari. 



di Martina Luciani

Se dei manifestanti che invocano pace, giustizia, diritti e salvezza per il popolo palestinese si permettono di aggredire un giornalista, come è avvenuto ai danni di Maurizio Mervar della RAI FVG, del quale è certa la straordinaria capacità di attenzione e onestà intellettuale per le problematiche che affronta nel suo lavoro, significa che sono dei deficienti (dal participio presente del verbo latino deficere).
Questa classificazione precede il reato commesso e dal mio punto di vista spiega le conseguenze che si sono propagate sull'intero movimento che cerca di fermare lo sterminio del popolo palestinese e la quotidiana pratica dei crimini di guerra da parte dello stato di Israele. 

Perchè ho usato la parola deficienti: perchè si sono rivelati, oltre che violenti, incapaci di prevedere le conseguenze di un’azione così spregevole e nel contempo priva di ogni risvolto utile allo scopo della manifestazione, e di considerare preventivamente lo stigma da generalizzazione che avrebbero riversato, come una fognatura che esplode, sulla causa che difendono, per la quale si è ritenuto di chiamare i cittadini a riunirsi e protestare.
Costoro, che dovrebbero partecipare all'immane sforzo di smuovere le coscienze contro gli orrori in corso e contribuire a far cessare il genocidio del popolo palestinese, sono riusciti  a distogliere l'attenzione pubblica dall’effetto voluto ed è  difficilissimo adesso enucleare le personali responsabilità della violenza e bloccare chi ora ne approfitta per istigare a NON distinguere tra i buoni e i cattivi. Siamo tutti cattivi, adesso, e questo grazie a un gruppetto di autentici deficienti, che la comunicazione di questi giorni classifica come "pacifisti". Un danno collaterale enorme per tutti i veri pacifisti. 

Ecco, io dell’imbecillità umana non ne posso più.
Mi lasciano peraltro indifferenti le reprimende moraleggianti che ci dispensa la politica di destra e di sinistra. Anzi, mi irrita persino che la politica parli di valori, è retorica a buon mercato, ottima occasione per ripescare concetti come diritto dovere di cronaca, libertà di stampa, stampa pilastro della democrazia, dimenticando però quanto noi peones subiamo sistematicamente gli effetti della stampa di regime e le manipolazioni attuate attraverso i media. 
Qua, nella specifica situazione dell’aggressione al giornalista Maurizio Mervar, si evidenzia che la legittima  protesta collettiva contro lo sterminio di cui è responsabile lo stato di Israele (una delle tragiche questioni di questo secolo sulle quali toccherà ai posteri esprimere l’ardua sentenza, sempre che i posteri restino liberi a sufficienza per farlo) ha sofferto grandemente perchè alcuni manifestanti hanno esibito la mancanza delle doti intellettuali minime richieste per partecipare ad attività sociali. 
Cioè comprendere le situazioni, le conseguenze dell’agire, l’opportunità dei comportamenti, i limiti logici e legali entro cui muovere una protesta. La stupidità ha alimentato la violenza, stavolta contro un giornalista, ed ha prevalso sul senso di opportunità, persino sul mero calcolo di convenienza  mentre l’opinione pubblica non discerne, e di stupidità si stordisce sempre più, attratta dalla luce di un fuoco che brucia l’autonoma riflessione e l’indipendenza di giudizio: esattamente quel che serve al potere, qualunque sia la sua bandiera, per conservare il suo predominio o per illudere sulle sue intenzioni.

Mi terrorizza prendere atto che siamo una società attrezzata ormai ad interloquire solo su fronti contrapposti e non con le dinamiche e le attrezzature dell’elaborazione di opinioni diverse, così guastando lo spirito e gli effetti delle più nobili resistenze.
Va detto che tutto ciò non è causato soltanto dell’impoverimento culturale e dell’educazione sempre più grossolana riservata alle nuove generazioni: il sistema stesso ci educa alla violenza, siamo capillarmente esposti a questo contagio mortale perché chi esercita il potere, e quindi governa a proprio vantaggio il sistema, lo fa con continue discriminazioni contro le quali siamo impotenti, accentuando le disuguaglianze e svilendo i valori e i principi che assicurano la salute sociale e democratica della comunità dei cittadini. Io non credo che si torni indietro, la civiltà umana è guasta oltre il punto di non ritorno e chi la difende deve ormai imparare a guardarsi anche dai suoi stessi compagni. 

lunedì 1 settembre 2025

INESORABILMENTE. FIRMATO DIGITALMENTE.


Pubblica Amministrazione: uno Stato nello Stato. L'emozione di un provvedimento che usa la parola "inesorabilmente"


di Martina Luciani



La premessa: una cittadina (il genere è rilevante nelle conclusioni del discorso) e dipendente di un ente locale ha una interlocuzione formale con la pubblica amministrazione di appartenenza.  Non servono molti dettagli, basta sapere che la questione è grave, riguarda intrinseche qualità della vita privata e delle relative proiezioni future. 

La cittadina e dipendente avvia l’interlocuzione in maniera formale, richiedendo l’annullamento in autotutela di un provvedimento in quanto sostenuto da motivazioni insufficienti , spiegando perché e percome.

(L'obbligo di motivazione non è un orpello retorico. Lo prevede la norma sul procedimento amministrativo, l’art. 3 della legge 241 del 1990, che dice: Ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l'organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere motivato… La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione, in relazione alle risultanze dell'istruttoria.
Se la motivazione è carente, si salta all’art.21 octies che configura le ipotesi di annullabilità del provvedimento.)


La pubblica amministrazione, attraverso il direttore di servizio competente per la questione, che qui, per ovvi motivi, chiamo solo Firmato Digitalmente, risponde respingendo l’istanza della cittadina dipendente. Tuttavia, con la famosa espressione “a ogni buon fine” (forse Firmato Digitalmente ha qualcosa di cui deve innanzitutto convincere se stesso?) la risposta “coglie l’occasione per dettagliare alcuni specifici aspetti”.

E lo fa, certo, infilando una serie di “confutazioni” che nuovamente, come nell’atto precedentemente contestato, non rispondono alla domanda “perché” , indicando quale specifica disposizione di legge sia da applicarsi ad una specifica situazione, così da consacrarne senza dubbi la categoria, la classificazione legale, chiamatela come volete
Mi spiego meglio, in ossequio al sopra citato concetto “ad ogni buon fine”: quando si attribuisce alla cittadina dipendente l’appartenenza ad una certa categoria, bisogna dire in base a quali fatti e quali regole (formatto la parola in grassetto e sottolineato, perché nell’atto c’è l’utilizzo di questi stili a rafforzare gli effetti comunicativi di termini peraltro di uso comune).
E per contro, nella dinamica della confutazione, bisogna dire in base a quali fatti e quali regole la dipendente non rientra nella categoria o nella condizione cui ella invece è convinta di appartenere.
Ma bisogna farlo correttamente, in maniera intelligibile, così oltretutto da consentire alla cittadina e dipendente di esercitare il suo diritto alla difesa, in fase interlocutoria o giurisdizionale.

Ci sono infatti palesi travisamenti nell’ analisi e nella classificazione di specifici o presunti diritti della cittadina dipendente e in aggiunta la manifestazione di completa ignoranza di certe prassi che intercorrono tra i cittadini lavoratori e l’INPS, oltre che delle sottigliezze infinite della materia pensionistica.

Ma fin qua, saremmo nell’ambito dell’ordinaria follia causata dall'ipertrofia della legislazione, tale che, nel sempre più rigoglioso intreccio delle leggi - così fitto da esser una volta oscura, impenetrabile alla luce dell’intelletto - soltanto l’estrema specializzazione dell’interprete consente di individuare il corretto sentiero da percorrere. Un generico Azzeccagarbugli non ce la può fare.

Ecco perché, al fine di attraversare la nera jungla (come scriverebbe Salgari) e far sì che l’amministrazione adempia al suo principio fondante ( la legalità, grassetto e sottolineato, su finalità, poteri e modalità di esercizio del potere) esiste il meccanismo dell’interpello al Ministero competente, che Firmato Digitalmente, co- protagonista di questa vicenda, ben si è guardato di attivare, altrimenti sarebbe stato logico farne buon uso e nel caso confermasse la correttezza dell’operare nei confronti della cittadina dipendente l’avrebbe definitivamente zittita. Certamente non ne aveva l’obbligo, ma sarebbe stato da parte un gesto rispetto verso la cittadina dipendente. Che peraltro ha ritenuto di segnalare la questione all’Ispettorato della funzione pubblica del Ministero della Pubblica Amministrazione.

Fin qui, a parte gli ovvi reciproci fastidi, la relazione rimane nel solco della normalità.

Quel che invece manda fuori dai gangheri la cittadina e dipendente è una parola, un avverbio assolutamente estraneo alle regole della comunicazione di un ente pubblico. Un’auto attribuzione di ruolo che la pubblica amministrazione non ha, a meno che non intenda consacrare il ruolo di antagonista di chiunque sia in una situazione di svantaggio: ovvero i cittadini.
Dirò di più: in quell’avverbio c’è l’atavica  tracotanza del patriarcato, che pure è in agonia ma si ostina a non vederlo; c’è la trasfigurazione di un direttore di servizio in un implacabile giudice che attua le spietate direttive di una divinità ctonia.
Arrivo al dunque: “L’ Amministrazione dovrà inesorabilmente far cessare il rapporto di lavoro…”: INESORABILMENTE. Implacabile, spietato. Lo è anche in un altro passaggio: la richiesta “ contrasta inesorabilmente con la disciplina…”. Nuova, esorbitante e non richiesta esibizione muscolare.

E’ evidente che nella costruzione delle frasi l’avverbio utilizzato è del tutto inutile: lo levi e rimane quanto necessario ad una pubblica amministrazione che applica la legge e con quella governa l’infinita variabilità della società umana nei settori della sua specifica competenza.

Quindi il fatto di averlo usato è emblematico.
Quesito: la cittadina dipendente si sente più colpita perché è una donna, e ha in sé depositati millenni di implacabili e inesorabili oppressioni, discriminazioni e violenze? Possibile! Ognuna di noi è portatrice, più o meno consapevolmente, delle memorie  e degli archetipi della sottomissione femminile da parte della società patriarcale.
E comunque, a sostegno della cittadina dipendente e di tutte le componenti dell’immensa Sorellanza, enfatizzo che quando l’esercizio di un qualsiasi potere perde la sua necessaria condizione di essenzialità ( piattaforma dell’imparzialità), assumendo connotati e sfumature personali, qualcosa da psicoanalizzare sicuramente c’è: cosicché questo INESORABILMENTE dice molto, molto di più di quel che significa sulla Treccani.

Ma chi te lo fa fare, egregio Firmato Digitalmente, ad essere inesorabile? Ti è consentito, essere dichiaratamente inesorabile o è una qualità richiesta ai direttori di servizio?