domenica 23 giugno 2019

I GIARDINI PERDUTI DI LHASA. A 60 anni dalla Battaglia di Lhasa, quando il Tibet perse ogni brandello di indipendenza, ricordiamo la scomparsa bellezza verde della capitale.

Nel sessantesimo anniversario dell'inizio della rivolta tibetana nel parco di Norbulink, la recensione incrociata di:
Silvia Vernetto – In Tibet. – Ed. Lindau, 2008.
Robert Barnett – La città illeggibile. Storie narrate dalle strade di Lhasa. – Centro Documentazione Alpina, 1999.



Sessantanni fa, a Lhasa, nel parco di Norbulingka, dove si trovava la residenza estiva del Dalai Lama, si riunì una folla di trentamila tibetani. Volevano proteggere il loro leader, che ritenevano stesse per finire inerme nelle mani dei cinesi, pretendevano che il loro paese fosse liberato dalla brutale occupazione della Repubblica popolare cinese e recuperasse la sua indipendenza.
Il Dalai Lama, ritenendo che l'unico modo per calmare la tensione ed evitare il peggio al suo popolo fosse la fuga, riuscì, nella notte tra il 17 e il 18 marzo 1959, ad uscire dalla residenza e riparare nelle aree meridionali del paese, ancora non interamente sotto controllo cinese. Il giorno successivo cominciò la Battaglia di Lhasa, feroce repressione del popolo tibetano: i cinesi bombardarono la residenza e il parco di Norbulingka, convinti che il Dalai Lama fosse ancora là, e imperversarono contro i civili.  Morirono più di 87 mila persone, sotto i colpi di un esercito moderno e ben armato, al quale potevano opporsi praticamente solo con i loro corpi; altre decine e decine di migliaia furono deportate.
Il governo tibetano venne sciolto e tutte le autonomie riconosciute dal Trattato in Diciassette Punti abolite. Intanto la Preziosa Presenza aveva deciso che l'ultima opzione era  fuggire per l'India, dove venne accolto, costituendo un governo in esilio, e dove nel tempo oltre 100 mila tibetani lo raggiunsero.




“Uno dei miei posti preferiti di Lhasa è un piccolo parco dietro il Potala. Antichissimi alberi ne costeggiano i sentieri. Sono così contorti che i rami diventano radici , e le radici si fanno rami. (…) Nel parco c’è un laghetto. Al centro sorge una minuscola isola, collegata alla terraferma da un ponticello arcuato, e, al centro dell’isola, un ancor più minuscolo monastero, abitato da una manciata di monaci. Anatre bianche vivono sulle sue sponde.”
La descrizione è di Silvia Vernetto, astrofisica torinese che ha partecipato a progetti di ricerca sui raggi cosmici in un laboratorio d’alta quota in Tibet: dal suo vivere tra i tibetani e dal suo vagabondare tra città, villaggi, altopiani sperduti e monasteri, è nato uno dei libri più sinceri, completi e avvincenti sul Tibet contemporaneo.
Quell’angolo di pace in cui la Vernetto usava sostare a contemplare la mole del Potala incombente sul laghetto probabilmente è il Lukhang, una delle reliquie dell’enorme distesa verde che circondava Lhasa: nel 1959, in una pianta topografica della città, era indicata una cerchia di 22 parchi, una fascia lussureggiante di vegetazione spontanea che veniva tenuta allo stato naturale e nella quale gli abitanti usavano andare a fare il picnic nei giorni di festa.
Oggi resta quasi nulla di un patrimonio la cui origine risale alla fine del 1600 : oltre al parco citato dalla Vernetto, il Norbulingka, incluso nel sito Unesco che tutela tutta l'area del Palazzo del Potala,  una parte del Shugtri Lingka, mentre le aree verdi che facevano famosa Lhasa stanno sotto il cemento della parte cinese della capitale tibetana.


 Il giornalista inglese Percival Landon, corrispondente del Times che accompagnò tra il 1903 e il 1904 la spedizione militare inglese a Lhasa scrisse che nulla di ciò che avevano potuto presupporre di trovare era all’altezza di quanto si offriva ai loro occhi impreparati a tale splendida rivelazione: “ … this city of gigantic palace and golden roof, these wild stretches of woodland, these acres of close-cropped grazing land and marshy grass, ringed and delimited by high trees or lazy streamlets of brown transparent water over which the branches almost met. Between the palace on our left and the town a mile away in front of us there is this arcadian luxuriance interposing a mile- wide belt of green. Round the outlying fringes of the town itself and creeping up between the houses of the village at the foot of the Potala there are trees – trees sufficiently numerous in themselves to give Lhasa a reputation as a garden city. But in this stretch of green, unspoiled by house or temple, and roadless save for one diverging highway, Lhasa has a feature which no other town on earth can rival.”

Dalla fine degli anni Cinquanta , la missione civilizzatrice dei cinesi procedette nella cementificazione e allo scempio dei luoghi, della cultura, dell’arte, dei luoghi sacri, della stessa società tibetana.
Produsse poi anche un fantastico paradosso: il piano regolatore stilato nel 1980 stabiliva che elemento determinante nella ricostruzione della città doveva essere il recupero di caratteristiche architettoniche etniche ( si, proprio quelle sistematicamente distrutte con furia per anni) ed il verde urbano: “ probabilmente era l’idea dei giardini a dare ai cinesi il senso di aver lasciato alle spalle lo squallido utilitarismo di un maoismo ormai prossimo alla fine”.
L’analisi è di Robert Barnett, fondatore a Londra del Tibet Information Network e autore di diversi lavori sul Tibet contemporaneo.
Ma i giardini tibetani, ci avvisa Barnett, intesi come esaltazione dello stato naturale non rinacquero più: “ la città relativamente perfetta, utile per la produzione, conveniente per la vita quotidiana, ricca, civile e pulita”, non poteva ospitare altro che un verde ben ordinato lungo le nuove strade, geometriche intersecazioni di grandi viali, vecchio clichè con cui ogni impero colonizzatore dichiara , a partire dalla civitas romana, attraverso il disegno razionale di strade lineari, ordinate e vaste la potenza del suo dominio.
Barnett, dentro un meccanismo letterario che alterna la trattazione oggettiva alla narrazione della sua personale esperienza di visitatore coinvolto in una rivolta popolare, permette di credere, a coloro che lo vogliano, che le ragioni mistiche per cui Lhasa fu edificata in un punto preciso della geografia spirituale del Tibet – nulla sull’Altopiano è solo fisico, è sempre anche metafisico – non siano leggendari vaneggiamenti esoterici.
E verifica che nonostante tutto ciò che accaduto, distrutto per sempre e costruito ( la postfazione di Fosco Maraini si intitola “Lhasa e la sua tragedia”), la città conserva ancora il perno della propria antica e sacra geometria urbana, il tempio Jokhang, al centro di Lhasa, nucleo vitale della storia e della cultura dei Tibetani.

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