Era l’alba di una estate di circa 40 anni fa. Ero a casa, appena rientrata dall’ospedale,
dove mia madre era stata ricoverata con una corsa notturna in ambulanza.
Metastasi ossee diffuse da un cancro al seno la stavano divorando, ormai c’erano poche
speranze e ancor meno tentativi da fare.
di Martina Luciani
Mio padre era rimasto con lei, in attesa del trasporto ad Aviano, per una cura
estrema ( e allora ancora sperimentale, che poi fu quella, e non il cancro, che
riuscì a ucciderla, vincendo in breve il suo fortissimo e grande cuore; il che
probabilmente fu una forma di pietosa e indolore eutanasia, vista la situazione).
Mi affacciai ad una finestra di casa, guardando verso il giardino dei miei
vicini, il giardino di Annalisa, mia amica d’infanzia.
E nello strazio di quei momenti, nel vuoto della mia anima così giovane ancora,
i primi raggi di sole cominciarono la loro danza sulle lucide foglie della Magnolia,
che già allora chiudeva vigorosa una prospettiva lunga, dalle mie finestre fino
al confine del giardino di Annalisa con altri giardini.
E quegli scintilli nella quiete dell’alba, mentre gli esseri umani ancora se ne
stavano zitti ma tutto risuonava di cinguetti e gorgheggi, furono una
consolazione: avevo poco più di ventanni, ma sentivo allora come oggi la
bellezza e l’armonia della natura, insinuate grazie ai giardini nelle
ristrettezze e miserie ecologiche della città, come strumenti e occasioni per percepire
dimensioni infinitamente più grandi del mio quotidiano camminare sul suolo
terrestre.
In quei momenti mia madre moriva, combatteva ancora, ma moriva.
L’Aurora dalle dita rosate era ormai scomparsa dal cielo, il sole sorgeva
filtrato e riflesso da grandi, forti foglie, lucide come se fossero state
incerate e pazientemente sfregate con un panno di lana. Sentii fluire dalla Magnolia, immobile ma circondata e pervasa dai movimenti dei raggi luminosi, la sensazione che mia madre sarebbe
rimasta dentro di me, perché la Grande Madre si trasmette nelle figlie, e poi
ancora nelle figlie e le radici sono così antiche da attraversare tutti i
tempi, e per questo non possono estirpate o inaridite.
Questo era il dono recato a
me attraverso una creatura di nome Magnolia. Che è rimasta nel giardino dei vicini per così tanti anni e che fino ad oggi ho continuato a guardare sorridendole, ogni volta che mi affacciavo e la vedevo riflettere la luce del sole oppure quella del plenilunio, proprio come la notte scorsa,con la Luna trionfante in Vergine.
Scrivo proprio mentre l’orrendo rumore
delle seghe elettriche copre il rumore dei grandi rami che si abbattono al
suolo.
Il nuovo proprietario della Magnolia non la vuole più, l’abbatte. E’ una
facoltà che fa parte dei suoi diritti di proprietà. Non ho nessun argomento per
contrastare quanto sta accadendo.
Vado da sempre ripetendo che il paesaggio urbano si determina in maniera
fondamentale grazie alla presenza dei grandi alberi, al livello di significati
e custodia delle memorie, quindi ben oltre la mera funzione decorativa; che la
presenza degli alberi, di ognuno di essi, e di tutti insieme nella reciproca
relazione delle infinite diversità del singolo esemplare, ha un ruolo enorme
sulla psicologia degli abitanti, perché la vita si svolge tra quinte e
prospettive esse stesse viventi, entro le quali l’esperienza umana si collega
alla natura e ai ritmi delle stagioni, entro cui le emozioni rimangono conservate
e si rinnovano attraverso la visione e la
percezione del contesto e via dicendo… Ecco, in conseguenza di tutto ciò, adesso
piango la morte della Magnolia, e di nuovo, mentre la pianta pezzo dopo pezzo
scompare e viene meno ciò che per me lei ha rappresentato lungo i decenni, piango
la morte di mia madre, la solitudine di una ragazza che doveva comprendere e
sopportare l’impotenza della scienza di fronte alla malattia, l’ingiustizia
atroce del sentirsi via via privati di un amore così importante come quello
della propria mamma, dell’avere una paura fottuta solo ad immaginare di non
poter più sentire il tocco caldo e vibrante delle irriproducibili carezze di
una madre sulla pelle della propria figlia.
Tutto tra i rami di una Magnolia, che non era nemmeno mia.
Devo farmene una ragione razionale? Ma anche no.
Mi passerà? Certo, pian piano e proprio per mezzo di tutto ciò che grazie alla Magnolia
ho metabolizzato e reso per sempre mio.
Tra
cui la grande Alleanza, tra la Madre e le figlie.
Proprio le mie figlie,in questa brutta
mattina,addolorate come me ma in aggiunta anche per me, hanno abbandonato i loro impegni e si stanno prendendo cura di me e
della mia tristezza, in mille modi. Anche correndo nel giardino dei vicini, a
prendere alcuni rami dell’albero tagliato, e poi ad acquistare non so che
sostanze per favorire la formazioni di radici dalle talee e tentare per me un amoroso
esperimento di rigenerazione.
Le seghe elettriche hanno terminato la loro opera, la tenerezza delle mie ragazze mi avvolge e attutisce e disinfiamma e placa.
Continuerò dire e ridire: amateli, gli alberi che sovrastano le nostre vite, perché
hanno visto, hanno ascoltato e spesso hanno sussurrato, anche se raramente sono
stati ascoltati; talvolta, come è successo a me, hanno aiutato a sopportare
indicibili smarrimenti, insinuando un’emozione, magari non perfettamente
decifrata nell’immediato, ma rimasta, conservata, evoluta negli anni,
confermata dalle esperienze e diventata strumento di consapevolezza, pilastro
della coscienza del sé e del vivere e morire in questo giro di giostra.